5° Rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale: aumentano le imprese che guardano al welfare aziendale per rispondere ai bisogni dei lavoratori e delle loro famiglie. Dimissioni? No grazie, ma cresce il malcontento
Presentato stamane il 5° Rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale, realizzato in collaborazione con Eudaimon, leader nei servizi per il welfare aziendale, con il contributo di Credem, Edison e Michelin. Dai risultati emerge che il 56,2% degli occupati non è propenso a lasciare il proprio lavoro, nella convinzione che non troverebbe un impiego migliore. La percentuale sale al 62,2% tra i 35-64enni e al 63,3% tra gli operai. È vero che nei primi nove mesi del 2021 si registrano 1.362.000 dimissioni volontarie, con un incremento del 29,7% rispetto allo stesso periodo del 2020. Ma proprio nel 2020, quando a causa del Covid il mercato del lavoro si era paralizzato, si era verificato un picco negativo di dimissioni: solo 1.050.000 nei primi tre trimestri, ovvero -18,0% rispetto al 2019. Si conferma però un trend di più lungo periodo di crescita delle dimissioni legato all’aumento della precarietà dei rapporti di lavoro.
Ad aprire la giornata è stato Francesco Maietta Responsabile dell’Area Politiche sociali del Censis, a cui sono seguiti gli interventi di Alberto Perfumo Amministratore Delegato di Eudaimon, Pierangelo Albini Direttore dell’Area Lavoro, Welfare e Capitale umano di Confindustria, Andrea Bianchi Segretario Generale del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, Andrea Cuccello Segretario Confederale della Cisl, Marco Leonardi Capo del Dipartimento della programmazione economica della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Susy Matrisciano Presidente della 11ª Commissione permanente (Lavoro pubblico e privato, previdenza sociale) del Senato della Repubblica, tutti moderati da Massimiliano Valerii, Direttore Generale del Censis.
Cresce l’insoddisfazione
Tra i lavoratori italiani il pragmatismo vince sulla tentazione della Great Resignation, cioè le dimissioni al buio per cercare un impiego più gratificante o per fare altro. Fa più paura l’idea di ritrovarsi impantanati nella precarietà del mercato del lavoro. Eppure l’82,3% dei lavoratori (l’86,0% tra i giovani, l’88,8% tra gli operai) si dice insoddisfatto della propria occupazione e ritiene di meritare di più. Retribuzioni che non crescono da troppo tempo. Il 58,1% dei lavoratori ritiene di ricevere una retribuzione non adeguata al lavoro svolto. La percezione è confermata dalle statistiche ufficiali: negli ultimi vent’anni le retribuzioni medie lorde annue nel nostro Paese si sono ridotte del 3,6% in termini reali (al netto dell’inflazione), mentre in Germania sono aumentate del 17,9% e in Francia del 17,5%. Pensando alla propria occupazione, il 68,8% dei lavoratori si sente meno sicuro rispetto a due anni fa (la percentuale sale al 72,0% tra gli operai e al 76,8% tra le donne). Nell’ultimo biennio il 66,7% dei lavoratori (il 71,8% tra i millennial) ha vissuto uno stress aggiuntivo per il lavoro e il 73,8% teme che in futuro dovrà fronteggiare nuove emergenze lavorative, con impatti rilevanti sulla propria vita quotidiana. Il lavoro, insomma, non paga abbastanza, non dà le certezze del passato, è fonte di tensione.
Lavoro da remoto
Lo stress aggiuntivo sul lavoro. Per il 51,3% degli occupati il proprio lavoro è molto cambiato durante la pandemia. Il digitale è stato determinante, ma non indolore. Infatti, complessivamente il 58,0% ha riscontrato difficoltà nell’utilizzo dei dispositivi digitali. In particolare, il 55,3% nella partecipazione ai meeting online e il 46,1% con la posta elettronica. Sullo smart working i lavoratori italiani si dividono: il 25,1% non vorrebbe farlo, il 32,9% è soddisfatto e vorrebbe proseguire, il 42,0% opterebbe per una soluzione ibrida. Il tempo di lavoro si dilata: il 39,7% degli occupati afferma di non disporre di tempo libero in modo sufficiente (e la percentuale sale al 45,1% tra gli esecutivi), il 23,0% prevede un ulteriore peggioramento nel futuro.
Il ruolo del welfare aziendale
Chiare le richieste dei lavoratori alle aziende: il 91,2% dei lavoratori vorrebbe retribuzioni più alte, l’86,5% più servizi di welfare aziendale su ambiti come la sanità e l’assistenza per i figli, il 75,2% maggiore supporto nel rispondere ai bisogni sociali quali la non autosufficienza di un familiare, la previdenza, l’istruzione dei figli. In sintesi: più soldi, più welfare aziendale, aiuto in situazioni di vita difficili. Intanto aumentano le aziende che puntano sugli strumenti del welfare aziendale. Per il 62,5% di un panel di responsabili delle risorse umane di grandi imprese il welfare aziendale è una priorità ed il 71,9% si dice pronto ad attivare servizi ad hoc per informare nel merito i lavoratori e rispondere ai loro bisogni. Piani di welfare ad hoc, fatti di servizi e supporti personalizzati, disegnati sull’unicità dei bisogni del singolo lavoratore, possono dare un contributo decisivo alla domanda di riconoscimento dei lavoratori, stimolando un diverso rapporto con lavoro e azienda.
“Il welfare aziendale ha le carte in regola per supportare tre dimensioni: il reddito, senza andarlo a sostituire; la protezione sociale, caratteristica meno scontata ma fondamentale, e l’ingaggio delle persone rispondendo al loro bisogno di essere riconosciute. Ci siamo finora preoccupati dell’esecuzione dei piani di welfare ma ora ci siamo accorti, da circa due anni, che questo “welfare eseguito” non basta più. Per questo abbiamo inserito una funzione di orientamento attraverso il Welfare Coach che ha tuttavia bisogno di essere implementata affinché il welfare abbia una natura anticipatoria rispetto alle necessità degli utenti, aumentando la loro informazione e consapevolezza” ha affermato Alberto Perfumo, Ad di Eudaimon ribadendo quanto già sottolineato durante l’Indagine Welfare e Comunicazione.
Lucia Medri
Le nuove dinamiche del welfare aziendale: l’integrazione dei public benefit
Agosto 28, 2024