Servizi aziendali

24 Luglio 2019

Dal welfare aziendale al welfare di territorio

Il contributo del Terzo Settore allo sviluppo del mercato del welfare aziendale sembra più idoneo a intercettare le Pmi e le realtà locali. Le potenzialità degli operatori del “sociale” possono diventare il perno intorno al quale aggregare gli interessi delle parti nel quadro di “reti” territoriali delle imprese, dei lavoratori e più in generale degli stessi cittadini. Ce ne parla Giovanni Scansani (Valore Welfare).

Terzo Settore e Welfare Aziendale (WA) sono sempre più vicini. La strada, ancorché non del tutto liberata da alcuni ostacoli, sembra ormai tracciata e il Terzo Settore si sta avviando a diventare un protagonista anche del mercato dei servizi di supporto al WA.

Tuttavia, per una rilevante parte del mondo della cooperazione, l’ingresso nel settore occupato dai Provider profit (e rivolto ad aziende generalmente profit) implica un forte rischio di “mercatizzazione”, ossia di possibile perdita di una parte della sua storica identità e dei valori che sostengono la stessa mission che caratterizza l’agire del non profit.

Eppure le espressioni più avvedute del mondo della cooperazione si sono mosse per non perdere contatto con la crescente domanda di servizi di WA avendo certamente ben presente che, pur entrando in un mercato composto da realtà profit, esse avrebbero dovuto preservare la propria cultura – ancorché dovendole necessariamente affiancare nuovi concetti e contenuti ed un diverso complessivo approccio rispetto al nuovo target di riferimento – ed hanno altresì compreso che, con ciò, avrebbero potuto esaltare proprio i tratti caratteristici del loro modo di fare impresa.

Si tratta, però, di esempi di avanguardia che, proprio nella loro esiguità numerica, sottolineano la perdurante generale distanza culturale del Terzo Settore rispetto alle dinamiche commerciali ed operative del mercato dell’outsourcing dei servizi di WA.

Nondimeno tali esempi esprimono una lungimirante visione e capacità: quella di aver dimostrato come sia possibile non solo conservare le proprie specificità, ma anche valorizzarle non temendo di dover passare attraverso processi di ripensamento e di ridisegno della struttura organizzativa con la più ampia finalità di modernizzare il complessivo impianto del modo con il quale “fare welfare” oggi ed in futuro.

La capacità del Terzo Settore di porsi concretamente come soggetto erogatore di servizi di WA e ad un tempo come Provider dei servizi gestionali connessi a quelle erogazioni dipenderà da quanto sarà in grado di collegare le competenze distintive di analisi e risposta a bisogni primari aggiornandole per affrontare la complessità della domanda e con la capacità di inserirsi in un mercato competitivo, digitalizzato e popolato prevalentemente da player for profit, come ha ricordato Stefano Granata, ex Presidente di CGM ed attuale Presidente di Confcooperative-Federsolidarietà nell’introdurre un agile e recentissimo volume (Il Welfare del Gruppo Cooperativo CGM) con il quale si è celebrata la “discesa in campo” del Gruppo stesso descrivendone anche i primi risultati conseguiti.

E qui sta il punto: quei risultati non ci sembrano ancora del tutto allineati alle attese. Il modello sin qui disegnato è forse ancora troppo prossimo alle tradizionali logiche dell’agire degli operatori del “sociale”. Ad esempio, la centratura dell’intervento sull’accompagnamento del singolo lavoratore (e del suo nucleo familiare) lungo il percorso della definizione delle risposte rispetto ai bisogni fatti emergere è certamente un approccio fortemente distintivo (ricalca il case management che caratterizza gli interventi di “presa in carico” posti in essere nell’ambito dei servizi di welfare di matrice pubblica), ma dovrà forse essere reingegnerizzato perché, volendo generare numeri significativi (in termini di clienti finali raggiunti e di aziende datrici di lavoro servite), questa impostazione potrebbe scontrarsi con alcuni limiti di sostenibilità economico-organizzativa anche (se non soprattutto) tenendo conto delle condizioni generalmente praticate dalla concorrenza dei Provider profit. Il rischio, in buona sostanza, è quello di spiazzare l’offerta del Terzo Settore.

Merita qualche considerazione anche lo stesso ruolo del Welfare Manager che, pur essendo un operatore sociale, ci è parso debba poter agire anche come una sorta di Key Account Manager (figura ben presente negli organigrammi dei Provider profit) senza, però, che al momento ne abbia assunto compiutamente il ruolo; analogamente può dirsi per il marketing e per il complessivo approccio di business che occorrerebbe strutturare per differenziarsi nell’attività di prospezione e di offerta al fine di catturare l’attenzione di un mercato, oltretutto, ormai decisamente affollato (come si è ricordato in apertura).

L’innesto di competenze commerciali e manageriali esterne al Terzo Settore (ma ad esso non necessariamente estranee, almeno quanto alle soft skill) potrebbe certamente aiutare: rappresenterebbe una delle forme di “ibridazione” alle quali proprio il mondo del non profit fa spesso riferimento.

Del resto, delle due l’una: o si entra decisamente “in campo” o si rischia di restarne ai bordi.

Il mercato non è necessariamente un “luogo” capace di indebolire la mission del non profit, ma, se correttamente interpretato, può rappresentare una potente opportunità di cambiamento e di modernizzazione. Inoltre, proprio la presenza di un Terzo Settore coerente con le dinamiche che il WA è capace di innescare può assegnare al terziario sociale il meritorio obiettivo di rendere questa arena di business più “civile” e maggiormente attenta alle finalità che si sostiene di voler perseguire proprio per il tramite degli istituti che caratterizzano il welfare in azienda.

Infine, la completezza dell’offerta dei servizi di supporto al WA neppure potrebbe essere raggiunta avvalendosi unicamente di quanto è in dotazione alle realtà del non profit. Ci sono prestazioni (non di poco conto, sia per valore complessivo che per la frequenza con la quale sono richieste dai lavoratori), che le organizzazioni del Terzo Settore non “coprono” e che per essere offerte presuppongono l’attivazione di relazioni commerciali con un buon numero di soggetti profit che sono partner imprescindibili dei Provider. Anche da questo angolo visuale, quindi, il Terzo Settore deve inevitabilmente aprirsi a nuove relazioni e all’incontro con altre e diverse competenze che potranno aiutarlo a conseguire i nuovi obiettivi che si è posto e ad ampliare la portata della sua azione complessiva.

Quale WA nel futuro del Terzo Settore

Il target di mercato che le singole realtà del non profit possono più agevolmente raggiungere è quello delle PMI. Ciò, però, non significa che questo sia un obiettivo più facile da approcciare rispetto a quello rappresentato dalle grandi aziende: per certi versi, semmai, è vero l’esatto contrario.

Nelle aziende di grandi dimensioni tutti i Provider profit più strutturati sono ormai presenti: gli appalti si vincono e si perdono (la selezione dei fornitori qui avviene tramite gare allestite da agguerriti manager dei servizi di procurement) e anche il possibile turnover è verosimilmente immaginabile che resti per lungo tempo ad appannaggio di realtà tecnologicamente e commercialmente avanzate, con le quali – almeno in questa fase – sembra improbabile che il non profit possa competere con serie possibilità di successo.

Poco male: le PMI rappresentano il 95% delle imprese attive in Italia e quelle con un profilo coerente con il possibile sviluppo di iniziative di WA sono decine di migliaia: c’è spazio per tutti. Ma, come si diceva, è tutt’altro che facile avvicinare anche questa grande quota della potenziale domanda.

Nelle PMI, infatti, non sempre la sensibilità culturale verso il WA è così diffusa (pur essendo aziende dove la relazionalità, la reciprocità e l’attenzione alla persona sono pratiche frequenti); in queste imprese, poi, la stessa conoscenza dei vantaggi fiscali e contributivi associabili all’attivazione di un PWA è spesso assente o molto approssimativa e la frequente mancanza di manager specializzati in ambito HR complica ulteriormente le cose.

Tuttavia, il Terzo Settore ha la “chiave” per aprire queste porte e questo è un plus che i Provider profit raramente posseggono (fanno forse eccezione quegli operatori che agiscono nel settore come Società Benefit e che spesso agiscono in stretta sinergia con il terziario sociale).

La “chiave” cui alludiamo è la capacità di creare o di compartecipare attivamente alla creazione di progetti territoriali di WA secondo quel modello di sviluppo che, incardinato sulle “reti multi-attore” e su dinamiche di sussidiarietà circolare, rappresenta la cifra con la quale le organizzazioni del Terzo Settore si propongono e s’incaricano spesso di generare reali impatti sociali capaci di essere incorporati nella catena della produzione e della generazione di valore per tutti gli stakeholder, dentro e fuori i confini delle aziende ed oltre il perimetro delle relazioni industriali.

I programmi di WA che nascono su queste basi diventano un bene co-progettato e co-prodotto da una filiera di stakeholder che realizza in concreto quel concetto di shared value con il quale ormai è stata superata (per incorporazione) anche la stessa prospettiva della Responsabilità Sociale d’Impresa perché, in questi contesti, l’ingaggio degli attori è tendenzialmente in grado di esprimere l’intera dimensione sociale e produttiva dei luoghi nei quali le imprese e le persone operano (come lavoratori) e vivono (come cittadini).

La capacità di fare “rete” che le realtà del Terzo Settore hanno in dotazione può avvicinarle al mondo delle imprese ad esempio in quelle aree nelle quali il tessuto economico appare in tal senso già predisposto (come avviene in alcune province della Lombardia, del Veneto, dell’Emilia Romagna e in quelle di Trento e di Bolzano) e dove l’attivazione di partnership e di network dedicati al WA ha trovato una sponda favorevole sia presso le amministrazioni locali che nelle sedi territoriali di Confindustria.

Sul piano della diffusione delle pratiche di WA quella capacità può, in qualche misura, persino supplire alla tradizionale assenza, in molte PMI, di rappresentanze sindacali dei lavoratori e al non frequente accesso, da parte di quelle imprese, alla disciplina di favore relativa a WA e Premi di Risultato (come noto, a determinate condizioni, a loro volta “welfarizzabili”) che pure l’adesione ai contratti collettivi territoriali consentirebbe loro di sfruttare.

È in questi contesti che il Terzo Settore, alleato con altre espressioni del territorio, può fungere (esattamente come avviene nelle aziende dove il sindacato è presente) da centro di propulsione della diffusione del WA e ciò proprio in quanto le sue organizzazioni sono capaci di reperire, attivare ed aggregare territorialmente risorse idonee a creare economie di scala e di filiera che possono favorire l’adozione di pratiche di WA da parte delle imprese di più contenuta dimensione, ponendosi inoltre come riferimento per lo studio, la progettazione e la gestione degli interventi.

Tramite le capacità progettuali ed operative del Terzo Settore, il WA può così diventare il perno intorno al quale aggregare gli interessi delle parti nel quadro di “reti” territoriali capaci di offrire prestazioni che intercettino i bisogni delle imprese, dei lavoratori e più in generale –  almeno nei casi più evoluti – degli stessi cittadini (quindi a prescindere dalla posizione occupazionale dei beneficiari) organizzando le risposte che a quei bisogni può dare l’offerta locale di beni e servizi, ossia l’economia del territorio stesso nella quale, centralmente, stanno proprio le PMI e le realtà del non profit.

E in questo scenario le esperienze più all’avanguardia hanno anche già introdotto l’impiego di specifiche piattaforme web e di altri tool digitali proprio per facilitare l’incontro tra domanda e offerta ed una più agevole fruizione dei servizi così messi a disposizione (ecco un altro motivo che giustifica la proprietà di questi strumenti se si vuole essere ad un tempo i registi e i protagonisti del cambiamento in atto).

Non passeremo per visionari sostenendo che, tramite questi interventi, l’apporto delle realtà del Terzo Settore potrà favorire la produzione di un effetto dal quale il WA non potrà che trarre benefiche conseguenze: quello riassumibile nel suo passaggio dal ruolo di policy (solo) integrativa del Welfare State a quello di policy decisamente integrata con quest’ultimo.

La differenza è evidente, come altrettanto evidente è il fatto che solo questo cambio di prospettiva potrà dare reale forza e contenuti sempre più meritori al WA della cui utilità sociale ultimamente, almeno in alcune sedi, si è persino parzialmente iniziato a dubitare, con la rischiosa prospettiva di una sua contrazione in termini di ampiezza della gamma delle risposte che sin qui sono state date ai molteplici bisogni espressi dai lavoratori.

Perché si possano costruire percorsi che conducano verso un Welfare Aziendale territorialmente integrato, la presenza attiva del Terzo Settore non solo è auspicabile, ma è forse persino necessaria proprio per rafforzare quelle finalità sociali il cui perseguimento unicamente giustifica il favor normativo che sostiene tutto l’impianto e senza le quali sì che il rischio di “mercatizzazione”, di consumismo e di commodification è dietro l’angolo, con quel che ne potrebbe conseguire per la tenuta complessiva del sistema e quindi dell’intero settore.

Giovanni Scansani

(La prima parte è raggiungibile a questo link. Il testo integrale sarà disponibile nella sezione Dossier, raggiungibile in home page)

Lascia un commento

Registrati alla nostra Newsletter