Servizi aziendali

23 Luglio 2019

Terzo settore e welfare aziendale: più vicini ma…

Le potenzialità degli operatori del “sociale” anche nel campo del Welfare Aziendale sono indubbie, ma passare dalla teoria alla pratica (e trasformarsi in Provider) è più difficile del previsto. Giovanni Scansani (Valore Welfare) ci aiuta a capire il perché.

Con oltre novanta Provider attivi quello dei servizi di supporto al Welfare Aziendale (WA) è un mercato ormai piuttosto ben definito, caratterizzato da una forte competizione e dalla particolare “biodiversità” dei suoi protagonisti. Queste caratteristiche ne fanno un “luogo” ricco di differenti culture d’impresa nel quale la concorrenza, come forse accade in pochissimi altri settori, ha modo di esprimersi anche guardando a mondi usualmente ritenuti molto distanti tra loro. Come, ad esempio, si è tradizionalmente portati a credere quando si pensa alle differenze culturali ed organizzative che separano le imprese profit da quelle non profit.

Quello dei Provider, invece, è un mercato che smentisce questo assunto non foss’altro per il parziale intreccio tra le due diverse origini che si sostanzia in alcune partnership, in scambi di know-how e che più recentemente si è tradotto in aperta sfida lanciata sul piano della competizione diretta.

I tre cluster del mercato

Un mercato ben delineato è un oggetto osservabile e misurabile ed infatti la sua struttura è stata recentemente analizzata da un’apposita prima (e sin qui unica) ricerca di tipo quantitativo (quella pubblicata nel 2018 da ALTIS-Università Cattolica di Milano, realizzata dal Prof. Luca Pesenti con la collaborazione dell’advisor Valore Welfare). L’analisi, oltre a dar conto dell’origine dei vari player e della complessiva composizione del mercato, ha introdotto una tripartizione – ormai diffusamente accolta dalla letteratura sull’argomento – che distingue i diversi attori in tre distinti cluster, in funzione della proprietà (o meno) di un portale web dedicato alla gestione dei Piani di Welfare Aziendale (PWA) e dell’esclusività (o meno) del sottostante business gestito.

Prima di addentrarci nell’analisi delle tendenze in atto nel rapporto esistente tra Terzo Settore e WA occorre almeno ricordare che il mercato di cui qui ci occupiamo è caratterizzato dalla presenza di:

  • Provider “puri”: proprietari di una piattaforma e unicamente attivi (dunque specializzati nella misura massima) nella progettazione, nella vendita e nell’esecuzione di servizi di supporto al WA;
  • Provider “ibridi”: proprietari di una piattaforma, ma concentrati su un diverso core-business rispetto al quale la gestione dei servizi di supporto al WA rappresenta un utile e sinergico completamento di una diversa offerta caratteristica;
  • Provider reseller: non proprietari della piattaforma, concentrati su un core-business diverso (ma pur sempre sinergico con i servizi di supporto al WA) e che per poter competere nel settore hanno stretto una partnership (con un Provider “puro” o un Provider “ibrido”) in forza della quale agiscono “come se” disponessero di un proprio portale (che in alcuni casi è anche “griffato” con un proprio brand).

L’ingresso del Terzo Settore

In due di questi cluster (quello dei Provider “ibridi” e dei Provider “reseller”) si collocano anche realtà appartenenti al mondo del terziario sociale. Cooperative, imprese sociali e loro consorzi hanno intuito che il mercato dei servizi di supporto al WA rappresenta un’interessante nuova area d’ingaggio per le loro attività perché del tutto sinergica con buona parte del loro consolidato know-how. Di più: quest’ultimo, se opportunamente sfruttato e comunicato, può fare la differenza proprio rispetto all’offerta dei Provider profit e soprattutto, come vedremo, se si ha nel mirino lo sconfinato target delle PMI.

Imprese e cooperative sociali, del resto, sono interlocutori naturali nel “discorso” sul WA: non solo perché le realtà del Terzo Settore esprimono una cultura e una dotazione di capitale umano e professionale che le rende “naturalmente” capaci di interpretare i bisogni e di fornire operativamente le risposte più adatte (ciò che spesso le colloca nel novero degli erogatori di alcuni dei servizi inseriti nei “cataloghi” dei Provider profit), ma anche perché la capillarità della loro presenza e la complessiva offerta di servizio che esprimono sono in grado, si direbbe altrettanto naturalmente, di giustificarne anche il loro ruolo come Provider.

Su queste premesse alcune organizzazioni non profit si sono risolte ad entrare nell’arena competitiva dei servizi di supporto al WA nel quale hanno cercato di porsi non già semplicemente come nuovi competitor, ma come operatori in grado di qualificare la propria offerta di servizio facendo leva su quello specifico know-how del quale è depositario proprio e solo il Terzo Settore e che nessun competitore profit può direttamente spendere sul mercato.

Ovviamente tutt’altra questione è se la committenza rappresentata dalle aziende datrici di lavoro sappia riconoscere ed apprezzare questo plus la cui solida base risiede in competenze professionali complesse e in un bagaglio di savoir faire in termini di relazionalità e di attenzione alla persona ed alle sue necessità che solo le realtà del Terzo Settore sanno esprimere pienamente.

Si tratta di dotazioni che nei servizi di caring (e quindi anche in alcune delle principali prestazioni di WA) rappresentano un aspetto imprescindibile per la qualità complessiva del servizio per il che è recentissima la definizione di alcune “linee-guida” contenute nella prassi di riferimento UNI/PdR 58:2019 che identifica i requisiti per la qualità dei fornitori di servizi alla persona/famiglia nel welfare aziendale, pubblicate dall’UNI-Ente Italiano di Normazione a seguito della conclusione dei lavori di un apposito “tavolo” tecnico attivato, non per caso, proprio su input del leader italiano del Terzo Settore: CGM – Gruppo Cooperativo Gino Mattarelli (sul quale torneremo a breve).

Anche se con un po’ di ritardo, l’imprenditoria sociale ha compreso che chi “fa welfare” tutti i giorni, servendo milioni di persone (tra le quali anche lavoratori e lavoratrici di imprese private) non poteva non dare una risposta ad una crescente domanda – quella dei servizi di WA – che, nella pratica, si sostanzia nell’erogazione di molti interventi che costituiscono, da sempre, il core-service delle realtà del Terzo Settore (si pensi ai servizi per l’infanzia o alla gestione di campus estivi ed invernali o ai servizi di assistenza domiciliare per gli anziani e per i non-autosufficienti).

Nel tentativo, comprensibile, di fare di necessità virtù (recuperando volumi di lavoro altrimenti venuti meno a seguito delle politiche di contenimento di alcune voci della spesa sociale pubblica) le realtà del Terzo Settore attivatesi anche come player di servizi di supporto al WA stanno opportunamente cercando di sfruttare al meglio la loro capacità di offrire risposte articolate e coerenti a quel ventaglio di necessità che è contemporaneamente espresso dalle imprese (in termini di people management e di creazione di benessere organizzativo), dai lavoratori (soprattutto quanto alle azioni di work-life balance) e dai territori (nel sinergico possibile incastro tra interventi di welfare pubblico e servizi di welfare occupazionale).

Proprio quest’ultimo legame con il territorio è uno degli aspetti classici insiti nell’azione delle organizzazioni del Terzo Settore che, se ben valorizzato, può fare la differenza rispetto all’azione dei Provider profit perché, soprattutto nel rapporto con le imprese più piccole e più strettamente legate al tessuto economico e sociale locale, la conoscenza delle necessità e dei problemi concreti, così come delle loro possibili soluzioni, può rilevarsi un reale elemento distintivo per l’offerta di servizi di WA proposta dai Provider non profit.

Per il Terzo Settore, quindi, il WA è una pista di lavoro “naturale” per capitalizzare appieno il suo know-how ed alcuni esempi di traduzione pratica di questa premessa non sono sin qui mancati. Se inizialmente si è trattato solo di alcune isolate esperienze (che hanno fatto però da “apripista”, come nel caso del consorzio marchigiano COOSS con la sua piattaforma “Welfie”) successivamente si sono registrati ingressi ben più significativi ed in grado di sfidare i Provider profit già affermati nel mercato, tanto sul piano dell’offerta di servizio che su quello della sua sottostante operatività.

Un caso paradigmatico

Il momento di svolta è stato realizzato con un’operazione di grande respiro (almeno potenzialmente): quella avviata nel 2017 dal già citato Gruppo CGM che si è inserito nel game competitivo mettendo “sul piatto” competenze organizzative, dimensioni e capacità professionali diffuse a livello nazionale (CGM raggruppa oltre 700 cooperative e imprese sociali nelle quali lavorano oltre 42.000 addetti).

Occorre partire da questa esperienza, certamente la più completa ed articolata, per comprendere se e come il Terzo Settore possa svolgere un suo ben definito ruolo anche nel mercato dell’outsourcing delle soluzioni operative collegate alla progettazione e alla gestione dei PWA.

Per la sua complessiva strutturazione il progetto concepito da CGM può essere assunto come paradigma esemplificativo di come possa essere concretamente agita la presenza operativa del terziario sociale nel mercato dei Provider. Si tratta, infatti, di un’esperienza che, pur non ancora del tutto dispiegatasi, è comunque ricca di spunti di riflessione perché innovativa ed originale e come tale destinata ad aprire nuove concrete prospettive in un mercato giovane, ma tutto sommato fattosi anche rapidamente statico, nel quale, cioè, l’innovazione di prodotto e di processo, dopo una spumeggiante fase iniziale, sembra essersi un po’ appannata e nel quale la crescita organica sembra persino stentare (da qui quella ricercata per linee esterne, tramite acquisizioni, cui nel 2016 aveva dato avvio Zucchetti rilevando la quota di maggioranza del Provider DoubleYou ed alla quale è seguita, quest’anno, l’operazione monstre messa a segno dalla multinazionale francese dei buoni pasto Edenred per rilevare le attività di EasyWelfare).

Per sfruttare appieno le sue capacità, il Gruppo CGM (ma l’esempio, come s’è detto, vale quale utile riferimento per la complessiva realtà del Terzo Settore) è partito da due mosse preliminari: da un lato, una formazione professionale ad hoc necessaria non solo per conoscere la materia sul piano fiscale e giuslavoristico, ma anche, immaginiamo, per cercare di dotarsi dei corretti strumenti necessari ad avvicinare le aziende e i loro manager (a partire dallo “stile”, dal “linguaggio” e dall’approccio complessivo verso questi nuovi interlocutori – tutti aspetti che, non facendo parte del bagaglio esperienziale degli operatori del Terzo Settore, verosimilmente costituiscono uno degli ostacoli maggiori per il successo dell’azione “commerciale” di cooperative e imprese sociali) e, dall’altro lato, l’attivazione di una partnership tecnologica con un Provider, affine per cultura e impostazione complessiva, ossia attento ai riflessi sociali del WA e che potesse mettere a disposizione un portale ed un’offerta la cui sottostante “filosofia” non fosse troppo distante dalla cultura del non profit (la piattaforma prescelta è quella di Jointly).

La scelta del “reselling” non deve sorprendere: essa accomuna CGM alle più dimensionate “firme” del WA operativo (banche, assicurazioni e APL: tutte realtà dedite ad altri business e tutte prive – fatta sinora eccezione per Randstad – di un portale proprietario).

Forse in questo passaggio può dirsi che sia mancato quello scatto che proprio nell’adozione diretta della tecnologia digitale identifica uno dei pilastri della trasformazione che anche il Terzo Settore dovrà compiere se intenderà rispondere sempre più adeguatamente e con servizi maggiormente efficienti ai bisogni individuali e collettivi, per come questi oggi si manifestano.

Il welfare (pubblico o aziendale che sia) è un ambito che si occupa primariamente di fornire servizi alla persona ed è ormai del tutto evidente che le innovazioni tecnologiche che hanno cambiato il modo di vivere e di lavorare e che quindi stanno impattando sui modelli organizzativi (privati e collettivi) non potranno che esplicare tali effetti anche nei processi di erogazione almeno di una parte di quegli stessi servizi.

Detenere la proprietà di queste soluzioni e poterle far evolvere a misura delle proprie specificità e delle proprie strategie è, del resto, l’approccio seguito dai Provider “puri” ed è oggi, non a caso, il nocciolo del dilemma make or buy che sta mettendo in discussione alcune partnership a suo tempo avviate dai Provider “reseller”.

C’è una componente disruptive anche nella tecnologia applicata ai servizi di welfare che è in grado di trasformare le prestazioni ed il ruolo degli operatori e contemporaneamente quello dei beneficiari dei servizi e verso la quale stanno guardando soprattutto gli operatori for profit (avvalendosi di tecniche come la UXD, la gamification, il design thinking e recentemente anche la blockchain): un’analoga attenzione dovrà esprimerla anche il Terzo Settore se non vorrà vedere crescere il gap che lo divide dagli operatori privati attivi in quello stesso mercato nel quale aspira a dire la sua come protagonista.

Quanto allo sviluppo di nuove necessarie competenze, CGM ha sinora formato qualche decina di Welfare Manager individuati nell’organico delle cooperative del suo network ed il cui ruolo è quello di creare partnership per allestire servizi con un elevato grado di qualità e completezza intercettando la domanda di WA che, nei vari territori, è potenzialmente espressa soprattutto dalle numerose PMI che formano il nostro tessuto produttivo.

Tramite queste nuove figure professionali e sfruttando il know-how maturato in decenni di attività, CGM mira ad aiutare le aziende nella costruzione di PWA disegnati su misura grazie alla capacità dei suoi operatori di “leggere” in profondità i bisogni e nell’individuare risposte coerenti e personalizzate per farvi fronte.

Per il futuro si tratterà di verificare se la scelta di non inserire stabilmente nel team anche qualche figura esterna, ossia proveniente dal mondo profit (alludiamo a competenze manageriali di tipo commerciale, organizzativo e tecnologico) si sarà dimostrata vincente. Approcciare le aziende solo dal lato dei bisogni dei lavoratori senza poter “leggere” ed interpretare anche i bisogni organizzativi e le diverse sottostanti people strategy potrebbe rappresentare un limite non secondario.

Giovanni Scansani

(1 parte. Il testo integrale sarà scaricabile dalla sezione Dossier, raggiungibile in home page)

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