Protagonisti

22 Dicembre 2022

Innovazione: le aziende studiano i dati per ricercare orizzontalità e worklife balance

innovazione

Con Raffaele Gaito, coach aziendale, scrittore ed esperto di Growth Hacking, grazie alla sua esperienza all’interno delle multinazionali e Pmi, abbiamo la possibilità di confrontarci e fare il punto sui cambiamenti che stanno attraversando il settore delle imprese: dal Growth Hacking, all’orizzontalità, alle nuove esigenze dei digital worker

Cos’è il Growth Hacking e in che modo si sta gradualmente inserendo in ambito aziendale?

Nasce una decina di anni fa in Silicon Valley, ed è una metodologia diffusasi specialmente negli ambiti più giovani, poi in seguito ha iniziato a interessare in modo trasversale anche altri settori. Dal 2016 circa, 2017, il fenomeno è cresciuto in Italia, soprattutto nelle start up e si è diffuso nelle piccole medie imprese, fino ai grandi gruppi. Il Growth Hacking permette alle aziende di innovarsi e aggiornarsi in maniera strutturata e ragionata perché per trasformazione intendiamo soprattutto la capacità di sopravvivenza di una realtà, che non può essere quindi impostata randomicamente ma valutandone i processi di adattamento con il supporto di dati.

Quanto ha a che fare con le politiche di welfare, è una ricerca che può intercettare anche i bisogni delle persone?

Al 100%. L’approccio si basa sui dati che l’azienda ricerca analizza e usa funzionalmente, informazioni verificabili che impattano sul processo, sulla comunicazione e marketing e sul prodotto. I dati quindi fanno comprendere al meglio le esigenze degli interlocutori, stakeholders e clienti, aiutano a risolvere problemi e facilitano l’adattamento alle situazioni. Caso emblematico è stato il 2020, quando pandemia e lockdown hanno cambiato il lavoro e le relazioni aziendali e le realtà che ce l’hanno fatta sono state, non a caso, quelle che hanno fatto riferimento allo studio del dato e partendo da ciò si sono ristrutturati.

In qualità anche di coach aziendale, hai potuto osservare un cambiamento di paradigma nelle caratteristiche richieste dalle imprese che stanno scegliendo progressivamente un approccio orizzontale al lavoro? Quali sono quelle che lo prediligono e cosa comporta a livello produttivo?

L’orizzontalità è un’altra grande rivoluzione. Negli ultimi anni abbiamo compreso che c’è un’alternativa agli specialisti, a una formazione di tipo verticale, perché se il mercato muta a grande velocità devono essere reperibili figure rispondenti a un contesto sempre più fluido. La specializzazione non è obsoleta ma deve essere completata da questa trasversalità, altrimenti dimostra tutte le sue limitazioni. I professionisti multidisciplinari ricoprono quindi una funzione “bridge” cioè ponte, metafora per spiegare come questa capacità metta in comunicazione due settori, gruppi di lavoro eterogenei che possono parlare linguaggi diversi e tradurre le situazioni di difficoltà.

Potresti raccontarci una o più case histories in cui sei stato coinvolto?

Posso far riferimento a due progetti che hanno a mio parere saputo applicare questo mindset all’operatività. Nel primo caso, che per me rappresenta in Italia il miglior esempio di spinta verso la sperimentazione, ho lavorato con Treedom, realtà famosa in tutto il mondo che promuove la piantumazione di alberi a distanza, tra le prime del nostro paese a lavorare in questo modo. Basti pensare che durante il lockdown, mentre nella maggior parte dei casi si procedeva al blocco delle assunzioni e/o ai licenziamenti, Treedom iniziava un piano di nuovi inserimenti che li ha portati a una crescita esponenziale. Un altro caso potrebbe essere quello di Chiesi Farmaceutici, apparentemente un settore complesso perché molto normato, nei fatti una società aperta alla sperimentazione non solo scientifica ma relazionale e attitudinale.

I digital worker ricercati, il 12% degli annunci di lavoro online è relativo proprio a questo tipo di occupazioni digitali, sono professionisti giovani o sono molti i senior che si reinventano e sono più attenti al worklife balance?

Entrambi: per i giovani è sicuramente più “naturale” esserlo perché appartengono a generazioni nate proprio in questa contingenza storica, ma anche molte persone con più esperienza e anni di lavoro stanno avendo la lungimiranza di affrontare il momento e carpire gli strumenti più utili a loro stessi e alla propria professione per renderla duttile e ricettiva e, sopratutto, per non farsi tagliare fuori.

Dal tuo punto di vista, e secondo la tua esperienza, quali sono le differenze tra il contesto italiano e quello internazionale, in particolar modo la situazione nella city di Londra dove tu vivi e lavori?

Mi confronto spesso con questa diversità: molte differenze pertengono al contesto economico finanziario, ma non solo. A Londra è evidente che la ricerca scientifico tecnologica sia più avanzata e anticipa quello che succede in Italia. Tuttavia c’è una questione anche culturale, in Italia siamo stati abituati da sempre a fare impresa orientandoci verso le pmi, quasi sempre a conduzione familiare, con l’idea dell’imprenditore “all’antica”. Non è solo un problema di tasse, quindi. Perciò è sulla generazione di nuovi imprenditori che dobbiamo puntare perché nata all’interno di questa nuova mentalità che fa ben sperare in sempre nuove innovazioni, se favorite e supportate.

Lucia Medri

Lascia un commento

Registrati alla nostra Newsletter