Leggi e normativa

16 Ottobre 2023

CNEL: il welfare aziendale più efficace (e opportuno) del salario minimo per legge

salrio minimo

Una riflessione di Giovanni Scansani a margine del documento del Cnel con cui si privilegia la via contrattuale (a quella legislativa) per regolare la retribuzione dei lavoratori. Co un’attenzione non marginale agli strumenti di welfare. Da incentivare. E monitorare

Il 12 ottobre scorso il CNEL ha pubblicato il documento che esprime la sua posizione sul tema del “salario minimo” (si tratta degli “Elementi di riflessione sul salario minimo in Italia”). In questo documento il Welfare Aziendale è citato in 7 delle sue 37 pagine di testo (al netto di copertina, premesse e indici). Per chi si occupa di quest’ultima materia può essere interessante leggere a che proposito se ne sia parlato. Lo facciamo “riclassificando” l’argomento in base agli aspetti che di esso sono stati evidenziati nel testo del quale, pertanto, non si seguirà lo sviluppo della sua originaria impaginazione (daremo, tuttavia, il riferimento puntuale dei singoli passaggi citati nelle sue pagine).

Contrattare, non legiferare

Anzitutto una breve sintesi della posizione del CNEL che, come noto, sulla questione del salario minimo, è nel senso di una rinnovata prevalenza della (associata alla necessità di un maggiore sostegno alla) contrattazione collettiva rispetto alla soluzione legislativa del tema: una posizione che non dovrebbe dispiacere ai sindacati. Tale orientamento discende, fondamentalmente, dall’evidenza del fatto che il tasso di “copertura” offerto dai contratti collettivi lascia fuori solo un 1% dei dipendenti privati che lavorano per aziende di cui non si conosce il contratto applicato. Su tale premessa e rispetto a quanto prevede la Direttiva Europea 2022/2041, l’Italia (che dovrà applicarla entro il 15.11.2024) è esente dall’obbligo (ovviamente non dall’opportunità, se ravvisata) di fissare ex lege un “salario minimo” in quanto, proprio il livello raggiunto dal “tasso di copertura” della contrattazione collettiva (che per la Direttiva dev’essere almeno pari all’80%), lascia presumere che il trattamento retributivo previsto dai contratti collettivi qualificati (cioè, sottoscritti da soggetti realmente rappresentativi) sia del tutto adeguato.

La funzione “salariale” del Welfare Aziendale

A pag. 21, nel rammentare che la struttura della retribuzione in Italia non è pensata in funzione di una tariffa oraria e che, diversamente da molti altri Paesi, esistono in Italia voci retributive particolari come la “tredicesima” e la “quattordicesima”, si sottolinea anche come, negli ultimi decenni, le stesse parti sociali abbiano concentrato – specie in alcuni comparti – le risorse dei rinnovi contrattuali sempre meno sul minimo tabellare per introdurre, semmai, nuove forme di distribuzione del valore economico del contratto in direzione della valorizzazione della produttività, della flessibilità organizzativa, della bilateralità e del welfare contrattuale (da cui poi deriva anche tanto Welfare Aziendale).
Le rilevazioni disponibili e alcune analisi di dettaglio sui principali CCNL segnalano (lo si rammenta a pag. 37) che la tariffa legale dei 9 euro lordi proposta in Parlamento è inferiore alle tariffe orarie minime desumibili da quasi tutti i contratti collettivi sottoscritti dalle confederazioni presenti al CNEL (se letti nella loro interezza e non fermandosi solo alla paga base o al minimo tabellare). Ciò anche senza tenere conto del trattamento economico complessivo di cui beneficiano i lavoratori grazie alle componenti variabili e alle prestazioni di Welfare Aziendale (che sono state la strada scelta da quasi tutti i sistemi contrattuali per potenziare il potere d’acquisto e le retribuzioni dei lavoratori).

Le criticità del Welfare Aziendale

Il documento del CNEL (a pag. 12) evidenzia anzitutto una criticità più volte sottolineata anche dai giuslavoristi e dagli operatori del settore: l’assenza di un monitoraggio sistematico di tipo qualitativo delle sue varie misure che pure beneficiano di rilevanti sostegni pubblici. Invero, ad oggi, non si dispone neppure del dato quantitativo complessivo non esistendo una banca dati unica che raccolga le informazioni del caso, pur con il limite, anche ove tali informazioni fossero disponibili, della loro solo parziale interezza perché molto WA non transita nei contratti, ma ha carattere unilaterale (anche quando formalizzato in un regolamento aziendale avente valore negoziale).
Ancora sul piano delle criticità, ma anche in vista di un rafforzamento del WA, si sottolinea (pag. 27) come esso non debba essere uno strumento di “washing” di pratiche contrattuali poco trasparenti, ma una prassi il cui sostegno (normativo, contrattuale e culturale) deve associarsi a contesti di lavoro improntati alla creazione di lavoro di qualità (potremmo dire, quindi, di lavoro “significativo” ossia dotato di “senso” per chi lo svolge: le politiche aziendali di welfare – se ben strutturate e rese robuste sul piano dei loro contenuti – hanno proprio il pregio di rafforzare il legame con il lavoro e con l’azienda per la quale lo si svolge).
Il CNEL suggerisce poi (a pag. 33) l’adozione di un piano di azione nazionale a sostegno dello sviluppo della contrattazione collettiva di qualità che potrebbe essere un utile strumento per riorientare, in termini di maggiore efficienza ed effettività, oltre alle risorse economiche a sostegno della contrattazione collettiva, dell’occupazione di qualità, della bilateralità e della produttività, anche quelle destinate al Welfare Aziendale (qui si incardina anche l’annosa questione della misurazione dell’impatto delle misure di welfare d’impresa: sul piano individuale, su quello organizzativo e su quello collettivo inteso anche come ricadute sul piano economico e sociale complessivo).
Il tema ritorna anche a pag. 35 con un’allerta (lanciata a suo tempo anche dalla precedente Presidenza del CNEL): verificare impatto ed effettività delle misure di incentivazione pubblica del Welfare Aziendale e, si potrebbe aggiungere, sostenere maggiormente quelle più meritorie sul piano sociale, ossia rispetto ai bisogni (individuali e familiari) più rilevanti per i lavoratori.
Infine, a pag. 36 ed a proposito del “lavoro povero”, gli “Elementi” rimandano al fatto che in queste fattispecie (tra le quali: parasubordinati, temporanei, lavoratori con mansioni discontinue, lavoratori a tempo parziale involontario) un elemento di sostegno mancante è, tra gli altri, spesso proprio il Welfare Aziendale. Una criticità nella criticità.

La partecipazione dei lavoratori

Due le indicazioni contenute nella già citata pag. 35. Anzitutto sono da rivedere, al fine di verificarne impatto ed effettività, “tutte le misure di incentivazione pubblica della contrattazione di prossimità e del welfare aziendale, nonché le misure di detassazione del salario di produttività” (possibile fonte di Welfare Aziendale quando contrattualmente se ne prevede la convertibilità in beni e servizi defiscalizzabili in base alle norme del TUIR) e ciò perché “non sempre hanno avviato processi virtuosi e trasparenti nella contrattazione collettiva e di cui non sempre hanno beneficiato le piccole e medie imprese”. Inoltre occorre “incidere sulle caratteristiche di fondo del nostro sistema di relazioni industriali e sostenere le proposte di una legislazione promozionale e di sostegno della partecipazione, in attuazione dell’articolo 46 della Costituzione”.
Il richiamo alla partecipazione dei lavoratori all’organizzazione del lavoro e dell’impresa (qualcosa di più della collaborazione evocata di Costituenti che scelsero tale ultimo termine proprio per non impiegare l’altro) va considerato nella duplice prospettiva salariale e welfaristica. La partecipazione (ossia “prendere parte” anziché solo “essere parte”, “contare” anziché solo “essere contato”) è certamente considerabile anche come una misura di benessere (individuale e collettivo) perché capace di far “fiorire” le persone e la loro professionalità. Qui si poteva essere più incisivi, non solo attesa la rinnovata centralità che il tema ha assunto sia nel dibattito poltico (si vedano le proposte della CISL, dell’UGL e dell’Istituto Stato e Partecipazione), sia nell’ambito della riprogettazione organizzativa trainata dalle trasformazioni tecnologiche che caratterizzano il lavoro nelle imprese, ma soprattutto avendo di fronte l’evidenza che le aziende più performanti e che quindi pagano meglio i propri dipendenti (ossia di più) sono proprio quelle partecipate e partecipative. Queste aziende sono spesso, del resto (e non per caso), le stesse nelle quali il Welfare Aziendale è maggiormente sviluppato.

Giovanni Scansani

CEO e Co-founder BONOOS Srl, Docente a contratto Università Cattolica di Milano

Foto @Ansa

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