Servizi aziendali

20 Maggio 2019

Il welfare aziendale a tavola. Una mostra sulla pausa pranzo

Giovanni Scansani ci racconta la mostra fotografica “Pausa pranzo. Cibo e lavoro nell’Italia delle fabbriche” organizzata a Milano dall’ISEC-Istituto per la Storia dell’Età Contemporanea

La ristorazione aziendale è uno snodo cruciale nella storia del Welfare Aziendale e delle relazioni umane e sindacali all’interno delle fabbriche novecentesche. Giovanni Scansani ci racconta la mostra fotografica allestita negli spazi della Camera del Lavoro dove resterà fino al 22 giugno di quest’anno. Reperti del passato, spunti per gli HR manager di oggi.

La mensa è stata una testimone privilegiata degli eventi che hanno caratterizzato le trasformazioni del lavoro nel ‘900: ne ha “fotografato” le evoluzioni, sia pure catturandole proprio nel momento in cui dal lavoro ci si asteneva per poter mangiare. Il richiamo alla fotografia non è casuale e non solo perché qui presentiamo una mostra fotografica dedicata alla storia della ristorazione aziendale, ma anche perché il momento del pasto consumato in fabbrica è stato uno dei “soggetti” più rappresentati (proprio perché molto rappresentativo), come dimostrano le numerose raccolte fotografiche che decine di fondazioni d’impresa, musei aziendali e archivi sindacali ancora gelosamente conservano. Il refettorio, in una prima fase, e successivamente la mensa, diventeranno il fulcro delle relazioni sociali in fabbrica, luoghi di espressione di un momento di armonia collettiva che la fotografia aveva il pregio di descrivere e di promuovere. Una capacità che, del resto, non sfuggì ai primi responsabili della comunicazione d’impresa perché le immagini cui ci riferiamo spesso sono state commissionate dalle stesse aziende non solo per corredare pubblicazioni interne destinate ai dipendenti, ma anche per illustrare libri incaricati di celebrarne le realizzazioni sociali.
Oltre alle mense, infatti, bisogna ricordare che nella fase della nascita del Welfare Aziendale moderno, tra le due Guerre, furono istituite anche le prime forme di previdenza collettiva, l’assistenza sanitaria e le colonie per i figli dei lavoratori, ossia le “opere sociali” poste in essere dalle grandi aziende (una definizione giunta sino a noi e tutt’oggi presente in quella norma del TUIR che defiscalizza alcuni servizi di Welfare Aziendale proprio in quanto considerati “oneri di utilità sociale” sostenuti dal datore di lavoro, mentre solo recentemente, sempre nel TUIR, il riferimento alle “colonie climatiche” è stato sostituito da un più attuale “centri estivi ed invernali”).

 

 

Le immagini che ritraggono operai e impiegati durante la “pausa pranzo” ci restituiscono il senso del collettivo che la fabbrica esprimeva perché le mense aziendali non furono (e non sono tuttora) solo il luogo per un break durante la giornata lavorativa, ma anche l’infrastruttura per la generazione e il consolidamento di relazioni umane, quindi di socialità e di libertà, pur in un contesto organizzato e regolamentato come quello della fabbrica e più in generale dell’azienda.
Un luogo che ha consentito di recuperare energie fisiche e anche di nutrire quelle politiche essendo stato spesso utilizzato come l’agorà nel quale i sindacati potevano (e spesso tuttora possono) incontrare intere maestranze: nelle mense sono stati prodotti e consumati milioni di pasti e altrettante parole e speranze. Ma per arrivare a tanto la strada è stata lunga. In principio ci fu la “schiscéta” che l’operaio portava con sé da casa e che consumava in maniera frugale tra le macchine del suo reparto, in condizioni igieniche precarie, senza potersi lavare le mani e finendo per condire il pasto anche con l’olio lubrificante di cui era sporco. Poi, con l’avvento del Fascismo e delle finalità di organizzazione e di controllo delle masse, anche la ristorazione in azienda divenne una fase del processo produttivo fordista, tuttavia attenta all’igiene e all’apporto calorico che il pasto doveva assicurare nell’ottica del mantenimento di prefissati livelli di produttività quotidiana.

L’evoluzione della “pausa pranzo” ha dunque coinciso con il passaggio dall’individualismo del consumo solitario di un pasto, spesso preparato all’alba da mogli o da madri premurose, all’organizzazione di massa della mensa, coincidente con la produzione di massa espressa dalla fabbrica. L’organizzazione della ristorazione dei lavoratori e la sua evoluzione consente di ricostruire la storia stessa del Welfare Aziendale e del lavoro nel passaggio tra i diversi registri che ne hanno scandito la maturazione: la fase pionieristica del paternalismo aziendale dei primi del ‘900, quella successiva tra le due Guerre e quella del boom economico. La scansione temporale di queste fasi – dalle origini fino alla fine degli anni ’70 del secolo scorso – è affidata ad un’interessante mostra fotografica (“Pausa pranzo. Cibo e lavoro nell’Italia delle fabbriche”) organizzata a Milano dall’ISEC-Istituto per la Storia dell’Età Contemporanea negli spazi della Camera del Lavoro dove resterà fino al 22 giugno di quest’anno.

 

 

L’iniziativa, frutto di un’attenta ricerca effettuata in archivi aziendali e sindacali, ha selezionato un catalogo di immagini che si devono all’opera di alcuni indiscussi maestri della fotografia come Silvestre Loconsolo, Ugo Mulas, Bruno Stefani e Uliano Lucas (quest’ultimo, molto noto per avere collaborato con numerose testate giornalistiche, ha realizzato alcuni scatti ormai celebri che costituiscono una preziosa fonte per la storia sociale del lavoro e della fabbrica). La mostra restituisce perfettamente il senso della conquista che la ristorazione organizzata in azienda ha rappresentato per milioni di lavoratori e induce a riflettere sulle condizioni attuali nelle quali la terziarizzazione del lavoro ha trasformato l’alimentazione meridiana in un “buono pasto” (non necessariamente associabile a un buon pasto) o nella consegna, anche in ufficio, di un lunch box portato da un foodrider. Come dire che tanta parte di quella socialità e di quelle relazioni umane che avevano annullato l’individualità del momento della consumazione del pasto si stanno ora scolorando in nuove solitudini. Una considerazione che Uliano Lucas, presentando la mostra, ha tradotto ponendosi questo interrogativo: “Che differenza c’è tra l’impiegato che oggi mangia un panino in ufficio davanti al suo PC e l’operaio degli inizi del ‘900 che consumava il pasto davanti al tornio?”; in qualche modo stiamo tornando alla “schiscéta”, mentre la tecnologia e la vita always online forse rischiano di rigettarci in un nuovo fordismo: quello digitale. La panoramica offerta dalla mostra giunge fino al secondo dopoguerra, un’epoca in cui la mensa, in precedenza parte integrante delle opere sociali fasciste, si rivela essere un’eredità che non si disperde perché ormai considerata acquisita da un sistema di Welfare Aziendale che non viene rimesso in discussione e che, anzi, si diffonde e si organizza ulteriormente con crescente professionalità. Dagli anni ‘60 diventerà oggetto di una specifica industrializzazione con l’avvento delle società specializzate nella ristorazione collettiva, alle quali saranno appaltati i servizi di quella che oggi nessuno più chiama “mensa” ma “ristorante aziendale”, nel quale vengono spesso riprodotte modalità di offerta tipiche della ristorazione extra lavorativa (esistono oggi realtà con “linee” pizzeria o griffate con i marchi più noti della ristorazione commerciale, ma anche complesse offerte di ristorazione biologica, etnica e in grado di soddisfare le più diverse esigenze dietetiche).

Questa evoluzione ha riguardato non solo la diffusione delle mense, ma anche la costruzione delle strutture dedicate alla loro installazione: le fotografie della mostra ci restituiscono, così, anche l’idea di quale ruolo abbia avuto, per il miglioramento complessivo della gestione e della fruizione di questo servizio, l’apporto del layout dei locali adibiti alla ristorazione aziendale la cui progettazione era stata affidata, in alcuni casi, a grandi architetti (come Gigiotto Zanini – mensa della Carlo Erba del 1928, Gio Ponti – mensa della Montecatini del 1935 e Giulio Minoletti – mensa impiegati Pirelli-Bicocca del 1957). E se la trasformazione delle strutture dedicate alla ristorazione è andata di pari passo con l’ammodernamento degli impianti produttivi della fabbrica, le fotografie ci mostrano come a quelle trasformazioni sia seguita anche un’evoluzione quasi antropologica, sia dei lavoratori, ripresi nel momento della consumazione dei pasti, sia di quelli addetti alla loro produzione. Le fotografie, infatti, rendono conto del passaggio da condizioni di lavoro (e di alimentazione) per noi oggi impressionanti, a contesti via via più salubri, ordinati e rispettosi della dignità delle persone il cui stesso aspetto cambia nel tempo, come anche si modificano l’atteggiamento, le posture ed il complessivo clima collettivo che le immagini con chiarezza sanno rappresentare.

Intorno alla storia del welfare d’impresa e della ristorazione aziendale si possono aprire nuove piste di ricerca, sin qui rimaste sostanzialmente inesplorate, “capitoli di storia in gran parte ancora da scrivere, cui questa mostra sarebbe felice di contribuire a dare l’abbrivio”, come ricorda Giorgio Bigatti, direttore della Fondazione ISEC, nel testo che correda il catalogo della mostra.
Ci auguriamo davvero che possa essere così, come anche che la mostra possa essere visitata da molti responsabili delle funzioni HR perché la tradizione e la storia italiana del Welfare Aziendale, pur molto risalenti nel tempo, sono ancora in grado di fornire idee e suggestioni che possono utilmente ispirare il people management contemporaneo.

 

Giovanni Scansani
Co-founder e Ceo di Valore Welfare

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