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22 Aprile 2021

Rizzi (Jointly): lo Sroi per misurare l’impatto del welfare aziendale

Jointly

Dal Roi allo Sroi, social return on investment. Cambiano i parametri per la misurazione del benessere di lavoratrici e lavoratori e ce lo spiega Francesca Rizzi, ceo e co-founder del provider Jointly

La misurazione dell’impatto è connaturata con la mission di Jointly. Da provider di welfare aziendale era inevitabile che ponesse la sua attenzione crescente a valutare le ricadute dei piani proposti alle imprese clienti. “Siamo nati nel 2014 come start up innovativa a vocazione sociale” racconta Francesca Rizzi, ceo e co-founder di Jointly. Una forma giuridica che prevedeva un impegno specifico alla misurazione dell’impatto a livello sociale di quello che era oggetto dell’attività di impresa.

“Abbiamo iniziato a misurare un primo set di attività, dedicate al tema della genitorialità, in particolare rivolto all’orientamento dei figli dei lavoratori – spiega Rizzi – ma abbiamo compreso subito che il tema della misurazione dell’impatto diventava un elemento strategico da proporre anche ai nostri clienti”.

Perché è così importante produrre misurazioni nel mondo del welfare aziendale?

“Misurazione vuol dire consapevolezza della strategia e degli obiettivi da raggiungere. È importante sempre misurare, ed è importante anche nel welfare aziendale. Molte aziende si sono avvicinate a quest’area di attenzione ai propri collaboratori e ai loro bisogni senza una chiara consapevolezza dei propri obiettivi. Le domande che dobbiamo sollecitare ai nostri clienti sono queste: tu che stai investendo in welfare aziendale, perché lo stai facendo? Che ritorno ti aspetti? Quali obiettivi vuoi raggiungere? In relazione a ciò dobbiamo definire delle Kpi adeguate per misurare il benessere dei dipendenti, piuttosto che l’engagement ottenuto, solo per fare due degli esempi possibili”.

La misurazione di elementi immateriali pone sempre qualche difficoltà pratica in più. Mentre la definizione di un Roi (return on investment) è più facile, in relazione agli esiti di un investimento/finanziamento, misurabili nel bilancio economico e di esercizio, avventurarsi in un Roi per l’investimento in welfare aziendale è meno ovvio.

“Infatti non parliamo di Roi, ma di Sroi, social return on investment. In quell’aggettivo, “social”, sta molta della differenza, anche nella definizione delle metriche. Le metodiche sono diverse, ma non sono meno serie e attendibili. Si tratta di fare un percorso di progressione, sempre in relazione agli obiettivi strategici che ci si pone. Intanto si possono raggiungere risultati utili per un bilancio sociale, o di rendicontazione non finanziaria. E non è poco. Tra non misurare nulla e arrivare al calcolo dello Sroi c’è un abisso. È un percorso che richiede del tempo, ma si può approcciare la misurazione d’impatto anche con gradualità raggiungendo dei risultati intermedi, già molto significativi per l’azienda”.

Il direttore Risorse umane di una grande azienda chimico-farmaceutica dice che sia difficile andare oltre la misurazione dei sorrisi dei collaboratori.

“Vada per i sorrisi, è già qualcosa. Ma occorre darsi l’ambizione di fare di più e di meglio. Non è vero che gli impatti delle iniziative HR non sono misurabili, perché agiscono su asset considerati “intangibili” come il capitale umano. Le metodologie esistono, ma certo non si può improvvisare. Il progetto di welfare aziendale, non inciderà direttamente sul fatturato, ma sicuramente può produrre risultati misurabili in termini di benessere individuale e organizzativo, con forti implicazioni di business”.

E poi ci sono le survey, immagino.

“Certo, e non si tratta di nulla di banale. Le survey non sono tutte uguali. La bontà dipende dalla metodologia scientifica con cui si costruiscono le domande e il tipo di approccio all’analisi dei dati, come ad esempio la possibilità di avere un campione di controllo. E poi si possono e si devono integrare con dati acquisiti dalle direzioni delle Risorse umane. Qualche esempio: sono calati o diminuiti i permessi? Le assenze per malattia?”.

Ma non c’è comunque un elemento standard da utilizzare per tutti?

“Cambia molto da azienda ad azienda. Dipende da quanto è profondo e articolato il piano di welfare. Dipende da quanto tempo si sviluppano obiettivi legati al welfare aziendale. Il percorso di misurazione dell’impatto è connesso a tutto questo ventaglio di possibilità. Tuttavia, l’importante è che le aziende comprendano che la misurazione d’impatto del welfare non è altro che una delle declinazioni del proprio approccio agli ESG, all’interno delle politiche di sostenibilità. L’impatto sociale del welfare rappresenta uno degli ingredienti della lettera “S” di quella sigla: gli interventi a supporto delle proprie “risorse umane” sono elementi importantissimi da valorizzare all’interno di una rendicontazione di sostenibilità”.

Potremmo dire che cambia anche l’obiettivo di misurazione dell’impatto?

“Certamente. Si può misurare un impatto sull’individuo e sul suo benessere in termini di salute psicofisica, di worklife integration, o di benessere famigliare. C’è poi un impatto sull’organizzazione, che deriva dal clima aziendale, dall’engagement, ma anche dalla produttività. E poi c’è un impatto sociale complessivo; un impatto delle politiche di welfare aziendale che incidono sulla comunità, sul territorio, sulla società, nella quale vivono e agiscono i lavoratori delle aziende”.

Marco Barbieri

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