Dossier

24 Luglio 2019

Terzo Settore e Welfare Aziendale

Terzo settore e welfare aziendale: più vicini ma…

Le potenzialità degli operatori del “sociale” anche nel campo del Welfare Aziendale sono indubbie, ma passare dalla teoria alla pratica (e trasformarsi in Provider) è più difficile del previsto.

Cerchiamo di capire il perché.

di Giovanni Scansani, Fondatore di Valore Welfare

Con oltre novanta Provider attivi quello dei servizi di supporto al Welfare Aziendale (WA) è un mercato ormai piuttosto ben definito, caratterizzato da una forte competizione e dalla particolare “biodiversità” dei suoi protagonisti. Queste caratteristiche ne fanno un “luogo” ricco di differenti culture d’impresa nel quale la concorrenza, come forse accade in pochissimi altri settori, ha modo di esprimersi anche guardando a mondi usualmente ritenuti molto distanti tra loro. Come, ad esempio, si è tradizionalmente portati a credere quando si pensa alle differenze culturali ed organizzative che separano le imprese profit da quelle non profit.

Quello dei Provider, invece, è un mercato che smentisce questo assunto non foss’altro per il parziale intreccio tra le due diverse origini che si sostanzia in alcune partnership, in scambi di know-how e che più recentemente si è tradotto in aperta sfida lanciata sul piano della competizione diretta.

I tre cluster del mercato

Un mercato ben delineato è un oggetto osservabile e misurabile ed infatti la sua struttura è stata recentemente analizzata da un’apposita prima (e sin qui unica) ricerca di tipo quantitativo (quella pubblicata nel 2018 da ALTIS-Università Cattolica di Milano, realizzata dal Prof. Luca Pesenti con la collaborazione dell’advisor Valore Welfare). L’analisi, oltre a dar conto dell’origine dei vari player e della complessiva composizione del mercato, ha introdotto una tripartizione – ormai diffusamente accolta dalla letteratura sull’argomento – che distingue i diversi attori in tre distinti cluster, in funzione della proprietà (o meno) di un portale web dedicato alla gestione dei Piani di Welfare Aziendale (PWA) e dell’esclusività (o meno) del sottostante business gestito.

Prima di addentrarci nell’analisi delle tendenze in atto nel rapporto esistente tra Terzo Settore e WA occorre almeno ricordare che il mercato di cui qui ci occupiamo è caratterizzato dalla presenza di:

  • Provider “puri”: proprietari di una piattaforma e unicamente attivi (dunque specializzati nella misura massima) nella progettazione, nella vendita e nell’esecuzione di servizi di supporto al WA;

  • Provider “ibridi”: proprietari di una piattaforma, ma concentrati su un diverso core-business rispetto al quale la gestione dei servizi di supporto al WA rappresenta un utile e sinergico completamento di una diversa offerta caratteristica;

  • Providerreseller: non proprietari della piattaforma, concentrati su un core-business diverso (ma pur sempre sinergico con i servizi di supporto al WA) e che per poter competere nel settore hanno stretto una partnership (con un Provider “puro” o un Provider “ibrido”) in forza della quale agiscono “come se” disponessero di un proprio portale (che in alcuni casi è anche “griffato” con un proprio brand).

L’ingresso del Terzo Settore

In due di questi cluster (quello dei Provider “ibridi” e dei Providerreseller”) si collocano anche realtà appartenenti al mondo del terziario sociale. Cooperative, imprese sociali e loro consorzi hanno intuito che il mercato dei servizi di supporto al WA rappresenta un’interessante nuova area d’ingaggio per le loro attività perché del tutto sinergica con buona parte del loro consolidato know-how. Di più: quest’ultimo, se opportunamente sfruttato e comunicato, può fare la differenza proprio rispetto all’offerta dei Provider profit e soprattutto, come vedremo, se si ha nel mirino lo sconfinato target delle PMI.

Imprese e cooperative sociali, del resto, sono interlocutori naturali nel “discorso” sul WA: non solo perché le realtà del Terzo Settore esprimono una cultura e una dotazione di capitale umano e professionale che le rende “naturalmente” capaci di interpretare i bisogni e di fornire operativamente le risposte più adatte (ciò che spesso le colloca nel novero degli erogatori di alcuni dei servizi inseriti nei “cataloghi” dei Provider profit), ma anche perché la capillarità della loro presenza e la complessiva offerta di servizio che esprimono sono in grado, si direbbe altrettanto naturalmente, di giustificarne anche il loro ruolo come Provider.

Su queste premesse alcune organizzazioni non profit si sono risolte ad entrare nell’arena competitiva dei servizi di supporto al WA nel quale hanno cercato di porsi non già semplicemente come nuovi competitor, ma come operatori in grado di qualificare la propria offerta di servizio facendo leva su quello specifico know-how del quale è depositario proprio e solo il Terzo Settore e che nessun competitore profit può direttamente spendere sul mercato.

Ovviamente tutt’altra questione è se la committenza rappresentata dalle aziende datrici di lavoro sappia riconoscere ed apprezzare questo plus la cui solida base risiede in competenze professionali complesse e in un bagaglio di savoir faire in termini di relazionalità e di attenzione alla persona ed alle sue necessità che solo le realtà del Terzo Settore sanno esprimere pienamente.

Si tratta di dotazioni che nei servizi di caring (e quindi anche in alcune delle principali prestazioni di WA) rappresentano un aspetto imprescindibile per la qualità complessiva del servizio per il che è recentissima la definizione di alcune “linee-guida” contenute nella prassi di riferimento UNI/PdR 58:2019 che identifica i “requisiti per la qualità dei fornitori di servizi alla persona/famiglia nel welfare aziendale”, pubblicate dall’UNI-Ente Italiano di Normazione a seguito della conclusione dei lavori di un apposito “tavolo” tecnico attivato, non per caso, proprio su input del leader italiano del Terzo Settore: CGM – “Gruppo Cooperativo Gino Mattarelli” (sul quale torneremo a breve).

Anche se con un po’ di ritardo, l’imprenditoria sociale ha compreso che chi “fa welfare” tutti i giorni, servendo milioni di persone (tra le quali anche lavoratori e lavoratrici di imprese private) non poteva non dare una risposta ad una crescente domanda – quella dei servizi di WA – che, nella pratica, si sostanzia nell’erogazione di molti interventi che costituiscono, da sempre, il core-service delle realtà del Terzo Settore (si pensi ai servizi per l’infanzia o alla gestione di campus estivi ed invernali o ai servizi di assistenza domiciliare per gli anziani e per i non-autosufficienti).

Nel tentativo, comprensibile, di fare di necessità virtù (recuperando volumi di lavoro altrimenti venuti meno a seguito delle politiche di contenimento di alcune voci della spesa sociale pubblica) le realtà del Terzo Settore attivatesi anche come player di servizi di supporto al WA stanno opportunamente cercando di sfruttare al meglio la loro capacità di offrire risposte articolate e coerenti a quel ventaglio di necessità che è contemporaneamente espresso dalle imprese (in termini di people management e di creazione di benessere organizzativo), dai lavoratori (soprattutto quanto alle azioni di work-life balance) e dai territori (nel sinergico possibile incastro tra interventi di welfare pubblico e servizi di welfare occupazionale).

Proprio quest’ultimo legame con il territorio è uno degli aspetti classici insiti nell’azione delle organizzazioni del Terzo Settore che, se ben valorizzato, può fare la differenza rispetto all’azione dei Provider profit perché, soprattutto nel rapporto con le imprese più piccole e più strettamente legate al tessuto economico e sociale locale, la conoscenza delle necessità e dei problemi concreti, così come delle loro possibili soluzioni, può rilevarsi un reale elemento distintivo per l’offerta di servizi di WA proposta dai Provider non profit.

Per il Terzo Settore, quindi, il WA è una pista di lavoro “naturale” per capitalizzare appieno il suo know-how ed alcuni esempi di traduzione pratica di questa premessa non sono sin qui mancati. Se inizialmente si è trattato solo di alcune isolate esperienze (che hanno fatto però da “apripista”, come nel caso del consorzio marchigiano COOSS con la sua piattaforma “Welfie”) successivamente si sono registrati ingressi ben più significativi ed in grado di sfidare i Provider profit già affermati nel mercato, tanto sul piano dell’offerta di servizio che su quello della sua sottostante operatività.

Un caso paradigmatico

Il momento di svolta è stato realizzato con un’operazione di grande respiro (almeno potenzialmente): quella avviata nel 2017 dal già citato Gruppo CGM che si è inserito nel game competitivo mettendo “sul piatto” competenze organizzative, dimensioni e capacità professionali diffuse a livello nazionale (CGM raggruppa oltre 700 cooperative e imprese sociali nelle quali lavorano oltre 42.000 addetti).

Occorre partire da questa esperienza, certamente la più completa ed articolata, per comprendere se e come il Terzo Settore possa svolgere un suo ben definito ruolo anche nel mercato dell’outsourcing delle soluzioni operative collegate alla progettazione e alla gestione dei PWA.

Per la sua complessiva strutturazione il progetto concepito da CGM può essere assunto come paradigma esemplificativo di come possa essere concretamente agita la presenza operativa del terziario sociale nel mercato dei Provider. Si tratta, infatti, di un’esperienza che, pur non ancora del tutto dispiegatasi, è comunque ricca di spunti di riflessione perché innovativa ed originale e come tale destinata ad aprire nuove concrete prospettive in un mercato giovane, ma tutto sommato fattosi anche rapidamente statico, nel quale, cioè, l’innovazione di prodotto e di processo, dopo una spumeggiante fase iniziale, sembra essersi un po’ appannata e nel quale la crescita organica sembra persino stentare (da qui quella ricercata per linee esterne, tramite acquisizioni, cui nel 2016 aveva dato avvio Zucchetti rilevando la quota di maggioranza del Provider DoubleYou ed alla quale è seguita, quest’anno, l’operazione monstre messa a segno dalla multinazionale francese dei buoni pasto Edenred per rilevare le attività di EasyWelfare).

Per sfruttare appieno le sue capacità, il Gruppo CGM (ma l’esempio, come s’è detto, vale quale utile riferimento per la complessiva realtà del Terzo Settore) è partito da due mosse preliminari: da un lato, una formazione professionale ad hoc necessaria non solo per conoscere la materia sul piano fiscale e giuslavoristico, ma anche, immaginiamo, per cercare di dotarsi dei corretti strumenti necessari ad avvicinare le aziende e i loro manager (a partire dallo “stile”, dal “linguaggio” e dall’approccio complessivo verso questi nuovi interlocutori – tutti aspetti che, non facendo parte del bagaglio esperienziale degli operatori del Terzo Settore, verosimilmente costituiscono uno degli ostacoli maggiori per il successo dell’azione “commerciale” di cooperative e imprese sociali) e, dall’altro lato, l’attivazione di una partnership tecnologica con un Provider, affine per cultura e impostazione complessiva, ossia attento ai riflessi sociali del WA e che potesse mettere a disposizione un portale ed un’offerta la cui sottostante “filosofia” non fosse troppo distante dalla cultura del non profit (la piattaforma prescelta è quella di Jointly).

La scelta del “reselling” non deve sorprendere: essa accomuna CGM alle più dimensionate “firme” del WA operativo (banche, assicurazioni e APL: tutte realtà dedite ad altri business e tutte prive – fatta sinora eccezione per Randstad – di un portale proprietario).

Forse in questo passaggio può dirsi che sia mancato quello scatto che proprio nell’adozione diretta della tecnologia digitale identifica uno dei pilastri della trasformazione che anche il Terzo Settore dovrà compiere se intenderà rispondere sempre più adeguatamente e con servizi maggiormente efficienti ai bisogni individuali e collettivi, per come questi oggi si manifestano.

Il welfare (pubblico o aziendale che sia) è un ambito che si occupa primariamente di fornire servizi alla persona ed è ormai del tutto evidente che le innovazioni tecnologiche che hanno cambiato il modo di vivere e di lavorare e che quindi stanno impattando sui modelli organizzativi (privati e collettivi) non potranno che esplicare tali effetti anche nei processi di erogazione almeno di una parte di quegli stessi servizi.

Detenere la proprietà di queste soluzioni e poterle far evolvere a misura delle proprie specificità e delle proprie strategie è, del resto, l’approccio seguito dai Provider “puri” ed è oggi, non a caso, il nocciolo del dilemma make or buy che sta mettendo in discussione alcune partnership a suo tempo avviate dai Providerreseller”.

C’è una componente disruptive anche nella tecnologia applicata ai servizi di welfare che è in grado di trasformare le prestazioni ed il ruolo degli operatori e contemporaneamente quello dei beneficiari dei servizi e verso la quale stanno guardando soprattutto gli operatori for profit (avvalendosi di tecniche come la UXD, la gamification, il design thinking e recentemente anche la blockchain): un’analoga attenzione dovrà esprimerla anche il Terzo Settore se non vorrà vedere crescere il gap che lo divide dagli operatori privati attivi in quello stesso mercato nel quale aspira a dire la sua come protagonista.

Quanto allo sviluppo di nuove necessarie competenze, CGM ha sinora formato qualche decina di Welfare Manager individuati nell’organico delle cooperative del suo network ed il cui ruolo è quello di creare partnership per allestire servizi con un elevato grado di qualità e completezza intercettando la domanda di WA che, nei vari territori, è potenzialmente espressa soprattutto dalle numerose PMI che formano il nostro tessuto produttivo.

Tramite queste nuove figure professionali e sfruttando il know-how maturato in decenni di attività, CGM mira ad aiutare le aziende nella costruzione di PWA disegnati su misura grazie alla capacità dei suoi operatori di “leggere” in profondità i bisogni e nell’individuare risposte coerenti e personalizzate per farvi fronte.

Per il futuro si tratterà di verificare se la scelta di non inserire stabilmente nel team anche qualche figura esterna, ossia proveniente dal mondo profit (alludiamo a competenze manageriali di tipo commerciale, organizzativo e tecnologico) si sarà dimostrata vincente. Approcciare le aziende solo dal lato dei bisogni dei lavoratori senza poter “leggere” ed interpretare anche i bisogni organizzativi e le diverse sottostanti people strategy potrebbe rappresentare un limite non secondario.

Dal welfare aziendale al welfare di territorio

Il contributo del Terzo Settore allo sviluppo del mercato del welfare aziendale sembra più idoneo a intercettare le Pmi e le realtà locali. Le potenzialità degli operatori del “sociale” possono diventare il perno intorno al quale aggregare gli interessi delle parti nel quadro di “reti” territoriali delle imprese, dei lavoratori e più in generale degli stessi cittadini. Terzo Settore e Welfare Aziendale (WA) sono sempre più vicini. La strada, ancorché non del tutto liberata da alcuni ostacoli, sembra ormai tracciata e il Terzo Settore si sta avviando a diventare un protagonista anche del mercato dei servizi di supporto al WA.

Tuttavia, per una rilevante parte del mondo della cooperazione, l’ingresso nel settore occupato dai Provider profit (e rivolto ad aziende generalmente profit) implica un forte rischio di “mercatizzazione”, ossia di possibile perdita di una parte della sua storica identità e dei valori che sostengono la stessa mission che caratterizza l’agire del non profit.

Eppure le espressioni più avvedute del mondo della cooperazione si sono mosse per non perdere contatto con la crescente domanda di servizi di WA avendo certamente ben presente che, pur entrando in un mercato composto da realtà profit, esse avrebbero dovuto preservare la propria cultura – ancorché dovendole necessariamente affiancare nuovi concetti e contenuti ed un diverso complessivo approccio rispetto al nuovo target di riferimento – ed hanno altresì compreso che, con ciò, avrebbero potuto esaltare proprio i tratti caratteristici del loro modo di fare impresa.

Si tratta, però, di esempi di avanguardia che, proprio nella loro esiguità numerica, sottolineano la perdurante generale distanza culturale del Terzo Settore rispetto alle dinamiche commerciali ed operative del mercato dell’outsourcing dei servizi di WA.

Nondimeno tali esempi esprimono una lungimirante visione e capacità: quella di aver dimostrato come sia possibile non solo conservare le proprie specificità, ma anche valorizzarle non temendo di dover passare attraverso processi di ripensamento e di ridisegno della struttura organizzativa con la più ampia finalità di modernizzare il complessivo impianto del modo con il quale “fare welfare” oggi ed in futuro.

La capacità del Terzo Settore di porsi concretamente come soggetto erogatore di servizi di WA e ad un tempo come Provider dei servizi gestionali connessi a quelle erogazioni dipenderà da quanto sarà in grado di collegare le competenze distintive di analisi e risposta a bisogni primari aggiornandole per affrontare la complessità della domanda e con la capacità di inserirsi in un mercato competitivo, digitalizzato e popolato prevalentemente da player for profit”, come ha ricordato Stefano Granata, ex Presidente di CGM ed attuale Presidente di Confcooperative-Federsolidarietà nell’introdurre un agile e recentissimo volume (“Il Welfare del Gruppo Cooperativo CGM”) con il quale si è celebrata la “discesa in campo” del Gruppo stesso descrivendone anche i primi risultati conseguiti.

E qui sta il punto: quei risultati non ci sembrano ancora del tutto allineati alle attese. Il modello sin qui disegnato è forse ancora troppo prossimo alle tradizionali logiche dell’agire degli operatori del “sociale”. Ad esempio, la centratura dell’intervento sull’accompagnamento del singolo lavoratore (e del suo nucleo familiare) lungo il percorso della definizione delle risposte rispetto ai bisogni fatti emergere è certamente un approccio fortemente distintivo (ricalca il case management che caratterizza gli interventi di “presa in carico” posti in essere nell’ambito dei servizi di welfare di matrice pubblica), ma dovrà forse essere reingegnerizzato perché, volendo generare numeri significativi (in termini di clienti finali raggiunti e di aziende datrici di lavoro servite), questa impostazione potrebbe scontrarsi con alcuni limiti di sostenibilità economico-organizzativa anche (se non soprattutto) tenendo conto delle condizioni generalmente praticate dalla concorrenza dei Provider profit. Il rischio, in buona sostanza, è quello di spiazzare l’offerta del Terzo Settore.

Merita qualche considerazione anche lo stesso ruolo del Welfare Manager che, pur essendo un operatore sociale, ci è parso debba poter agire anche come una sorta di Key Account Manager (figura ben presente negli organigrammi dei Provider profit) senza, però, che al momento ne abbia assunto compiutamente il ruolo; analogamente può dirsi per il marketing e per il complessivo approccio di business che occorrerebbe strutturare per differenziarsi nell’attività di prospezione e di offerta al fine di catturare l’attenzione di un mercato, oltretutto, ormai decisamente affollato (come si è ricordato in apertura).

L’innesto di competenze commerciali e manageriali esterne al Terzo Settore (ma ad esso non necessariamente estranee, almeno quanto alle soft skill) potrebbe certamente aiutare: rappresenterebbe una delle forme di “ibridazione” alle quali proprio il mondo del non profit fa spesso riferimento.

Del resto, delle due l’una: o si entra decisamente “in campo” o si rischia di restarne ai bordi.

Il mercato non è necessariamente un “luogo” capace di indebolire la mission del non profit, ma, se correttamente interpretato, può rappresentare una potente opportunità di cambiamento e di modernizzazione. Inoltre, proprio la presenza di un Terzo Settore coerente con le dinamiche che il WA è capace di innescare può assegnare al terziario sociale il meritorio obiettivo di rendere questa arena di business più “civile” e maggiormente attenta alle finalità che si sostiene di voler perseguire proprio per il tramite degli istituti che caratterizzano il welfare in azienda.

Infine, la completezza dell’offerta dei servizi di supporto al WA neppure potrebbe essere raggiunta avvalendosi unicamente di quanto è in dotazione alle realtà del non profit. Ci sono prestazioni (non di poco conto, sia per valore complessivo che per la frequenza con la quale sono richieste dai lavoratori), che le organizzazioni del Terzo Settore non “coprono” e che per essere offerte presuppongono l’attivazione di relazioni commerciali con un buon numero di soggetti profit che sono partner imprescindibili dei Provider. Anche da questo angolo visuale, quindi, il Terzo Settore deve inevitabilmente aprirsi a nuove relazioni e all’incontro con altre e diverse competenze che potranno aiutarlo a conseguire i nuovi obiettivi che si è posto e ad ampliare la portata della sua azione complessiva.

Quale WA nel futuro del Terzo Settore

Il target di mercato che le singole realtà del non profit possono più agevolmente raggiungere è quello delle PMI. Ciò, però, non significa che questo sia un obiettivo più facile da approcciare rispetto a quello rappresentato dalle grandi aziende: per certi versi, semmai, è vero l’esatto contrario.

Nelle aziende di grandi dimensioni tutti i Provider profit più strutturati sono ormai presenti: gli appalti si vincono e si perdono (la selezione dei fornitori qui avviene tramite gare allestite da agguerriti manager dei servizi di procurement) e anche il possibile turnover è verosimilmente immaginabile che resti per lungo tempo ad appannaggio di realtà tecnologicamente e commercialmente avanzate, con le quali – almeno in questa fase – sembra improbabile che il non profit possa competere con serie possibilità di successo.

Poco male: le PMI rappresentano il 95% delle imprese attive in Italia e quelle con un profilo coerente con il possibile sviluppo di iniziative di WA sono decine di migliaia: c’è spazio per tutti. Ma, come si diceva, è tutt’altro che facile avvicinare anche questa grande quota della potenziale domanda.

Nelle PMI, infatti, non sempre la sensibilità culturale verso il WA è così diffusa (pur essendo aziende dove la relazionalità, la reciprocità e l’attenzione alla persona sono pratiche frequenti); in queste imprese, poi, la stessa conoscenza dei vantaggi fiscali e contributivi associabili all’attivazione di un PWA è spesso assente o molto approssimativa e la frequente mancanza di manager specializzati in ambito HR complica ulteriormente le cose.

Tuttavia, il Terzo Settore ha la “chiave” per aprire queste porte e questo è un plus che i Provider profit raramente posseggono (fanno forse eccezione quegli operatori che agiscono nel settore come Società Benefit e che spesso agiscono in stretta sinergia con il terziario sociale).

La “chiave” cui alludiamo è la capacità di creare o di compartecipare attivamente alla creazione di progetti territoriali di WA secondo quel modello di sviluppo che, incardinato sulle “reti multi-attore” e su dinamiche di sussidiarietà circolare, rappresenta la cifra con la quale le organizzazioni del Terzo Settore si propongono e s’incaricano spesso di generare reali impatti sociali capaci di essere incorporati nella catena della produzione e della generazione di valore per tutti gli stakeholder, dentro e fuori i confini delle aziende ed oltre il perimetro delle relazioni industriali.

I programmi di WA che nascono su queste basi diventano un bene co-progettato e co-prodotto da una filiera di stakeholder che realizza in concreto quel concetto di shared value con il quale ormai è stata superata (per incorporazione) anche la stessa prospettiva della Responsabilità Sociale d’Impresa perché, in questi contesti, l’ingaggio degli attori è tendenzialmente in grado di esprimere l’intera dimensione sociale e produttiva dei luoghi nei quali le imprese e le persone operano (come lavoratori) e vivono (come cittadini).

La capacità di fare “rete” che le realtà del Terzo Settore hanno in dotazione può avvicinarle al mondo delle imprese ad esempio in quelle aree nelle quali il tessuto economico appare in tal senso già predisposto (come avviene in alcune province della Lombardia, del Veneto, dell’Emilia Romagna e in quelle di Trento e di Bolzano) e dove l’attivazione di partnership e di network dedicati al WA ha trovato una sponda favorevole sia presso le amministrazioni locali che nelle sedi territoriali di Confindustria.

Sul piano della diffusione delle pratiche di WA quella capacità può, in qualche misura, persino supplire alla tradizionale assenza, in molte PMI, di rappresentanze sindacali dei lavoratori e al non frequente accesso, da parte di quelle imprese, alla disciplina di favore relativa a WA e Premi di Risultato (come noto, a determinate condizioni, a loro volta “welfarizzabili”) che pure l’adesione ai contratti collettivi territoriali consentirebbe loro di sfruttare.

E’ in questi contesti che il Terzo Settore, alleato con altre espressioni del territorio, può fungere (esattamente come avviene nelle aziende dove il sindacato è presente) da centro di propulsione della diffusione del WA e ciò proprio in quanto le sue organizzazioni sono capaci di reperire, attivare ed aggregare territorialmente risorse idonee a creare economie di scala e di filiera che possono favorire l’adozione di pratiche di WA da parte delle imprese di più contenuta dimensione, ponendosi inoltre come riferimento per lo studio, la progettazione e la gestione degli interventi.

Tramite le capacità progettuali ed operative del Terzo Settore, il WA può così diventare il perno intorno al quale aggregare gli interessi delle parti nel quadro di “reti” territoriali capaci di offrire prestazioni che intercettino i bisogni delle imprese, dei lavoratori e più in generale – almeno nei casi più evoluti – degli stessi cittadini (quindi a prescindere dalla posizione occupazionale dei beneficiari) organizzando le risposte che a quei bisogni può dare l’offerta locale di beni e servizi, ossia l’economia del territorio stesso nella quale, centralmente, stanno proprio le PMI e le realtà del non profit.

E in questo scenario le esperienze più all’avanguardia hanno anche già introdotto l’impiego di specifiche piattaforme web e di altri tool digitali proprio per facilitare l’incontro tra domanda e offerta ed una più agevole fruizione dei servizi così messi a disposizione (ecco un altro motivo che giustifica la proprietà di questi strumenti se si vuole essere ad un tempo i registi e i protagonisti del cambiamento in atto).

Non passeremo per visionari sostenendo che, tramite questi interventi, l’apporto delle realtà del Terzo Settore potrà favorire la produzione di un effetto dal quale il WA non potrà che trarre benefiche conseguenze: quello riassumibile nel suo passaggio dal ruolo di policy (solo) integrativa del Welfare State a quello di policy decisamente integrata con quest’ultimo.

La differenza è evidente, come altrettanto evidente è il fatto che solo questo cambio di prospettiva potrà dare reale forza e contenuti sempre più meritori al WA della cui utilità sociale ultimamente, almeno in alcune sedi, si è persino parzialmente iniziato a dubitare, con la rischiosa prospettiva di una sua contrazione in termini di ampiezza della gamma delle risposte che sin qui sono state date ai molteplici bisogni espressi dai lavoratori.

Perché si possano costruire percorsi che conducano verso un Welfare Aziendale territorialmente integrato, la presenza attiva del Terzo Settore non solo è auspicabile, ma è forse persino necessaria proprio per rafforzare quelle finalità sociali il cui perseguimento unicamente giustifica il favor normativo che sostiene tutto l’impianto e senza le quali sì che il rischio di “mercatizzazione”, di consumismo e di commodification è dietro l’angolo, con quel che ne potrebbe conseguire per la tenuta complessiva del sistema e quindi dell’intero settore.

Prima parte: Terzo settore e welfare aziendale: più vicini ma…

Seconda parte: Dal welfare aziendale al welfare di territorio

Scarica il PDF Dossier_Scansani_TerzoSettoreWelfareAziendale

Lascia un commento

Registrati alla nostra Newsletter