8 Maggio2019

Welfare aziendale o elettorale? Il Ddl conosce poco il mercato

Un disegno di legge della Lega si propone di rilanciare il welfare d’impresa. Un “booster” o un “boomerang”? Giovanni Scansani, esperto di welfare aziendale, analizza le proposte e dice la sua.

Dopo la pubblicazione della Legge di Stabilità 2019 qualche commentatore aveva lamentato la “battuta d’arresto” che lo sviluppo del Welfare Aziendale (WA) avrebbe subìto dopo il “triennio glorioso” (2016-2018) nel corso del quale numerosi interventi normativi e di prassi avevano ridisegnato il perimetro e le modalità con le quali sindacati e aziende potevano articolare i propri interventi in materia. Il grido d’allarme derivava dal fatto che, per la prima volta e dopo tre anni d’intensa attività sul tema, il Legislatore era rimasto silente sull’argomento.

Nessuna nuova, buona nuova” recita un vecchio adagio e in effetti più che pensare a una “battuta d’arresto” poteva semmai ritenersi che l’assenza di disposizioni concernenti il WA stesse a significare che la materia aveva ricevuto una sufficiente “riforma” e che, quindi, quel silenzio non andasse interpretato negativamente. Insomma, nessuna novità ma – e ciò che più conta – neppure alcuno stravolgimento.

A risvegliare gli animi ha, però, recentemente provveduto una pattuglia di parlamentari della Lega che ha preso carta e penna per stendere un disegno di legge (ddl) che, tra i vari obiettivi che si prefigge, ha anche quello di dare ulteriore impulso al welfare d’impresa. Un lodevole intento che, tuttavia, si è tradotto in un documento che presenta alcune evidenti criticità e che ci fa pensare sia stato predisposto per finalità elettorali (in vista della prossima tornata per le “Europee”) più che con l’obiettivo di favorire un reale ed ulteriore sviluppo del WA.

Sviluppo, letteralmente, significa “senza viluppi”: è dunque un termine che rimanda al senso di una maggiore libertà (di crescere, di progredire). Ma un reale ulteriore “s-viluppo” del WA dovrebbe tenere conto, anzitutto, della struttura del “corpo” che s’intende liberare e, trattandosi di lavoro e di imprese, della struttura del nostro tessuto produttivo e delle sue dinamiche. Questo non sembra sia del tutto avvenuto e non ne comprendiamo il perché, posto che il target elettorale leghista è (o dovrebbe essere) costituito anche da quella rilevante schiera di piccoli e medi imprenditori che rappresentano, appunto, buona parte della nostra economia.

Quando, infatti, si propone – come fa il ddl in questione – di dare un impulso alla produttività del lavoro e un sostegno ai salari innalzando il tetto dell’ammontare dei Premi di Risultato (PdR) dagli attuali 3.000 a 5.000 euro, significa non aver tenuto conto di ciò che emerge dalle ormai numerose ricerche e analisi di settore e persino dai dati di cui lo stesso Ministero del Lavoro è in possesso (li trae dalle informazioni contenute nei contratti obbligatoriamente depositati presso gli ITL per poter fruire della defiscalizzazione dei PdR). Il valore medio del PdR assegnato ai lavoratori è collocato in una forbice tra 1.300 e 1.700 euro (altra questione è quella dell’ammontare poi effettivamente convertito in WA): ne discende che l’innalzamento a 5.000 euro è sideralmente distante dalla realtà fattuale delle imprese italiane (fanno eccezione unicamente pochissime grandi imprese e quelle di “scuola tedesca” che esprimono valori superiori alla media indicata). In sostanza quindi, innalzare il valore defiscalizzato del PdR non aiuterebbe la generalità delle imprese, in particolare le PMI, perché non sarebbe coerente con la realtà viva della maggior parte dell’Italia che lavora. In definitiva non genererebbe lo sviluppo che i firmatari del ddl si auspicano.

Analoghe considerazioni possono farsi per un’altra proposta contenuta nel documento: l’abbattimento dell’aliquota IRPEF agevolata sin qui applicata ai PdR (pari al 10%). La proposta di ridurla al 5% è certamente interessante per i lavoratori, ma se l’intento è quello di dare ulteriore impulso alla “welfarizzazione” dei PdR (a fronte della quale le imprese non sono tenute a versare i contributi previdenziali con un risparmio prossimo al 30%, considerando anche altre voci di saving che la scelta dell’erogazione del PdR in kind comporta) non può non evidenziarsi come, anche in tal caso, si sia nuovamente persa di vista la realtà dei fatti che racconta di un bassissimo tasso medio di conversione dei PdR (oscilla tra il 20% e il 30% dei lavoratori destinatari di questa componente variabile del salario i quali, poi, nella maggior parte dei casi, neppure la convertono integralmente in servizi).

Il che è quanto dire che circa l’80% degli addetti preferisce l’erogazione del PdR in cash e che tale percentuale (con l’IRPEF al 5% anziché al 10%) sarebbe inevitabilmente destinata a salire, vanificando così quel trend che, sia pure lentamente, sta spostando la “welfarizzazione” verso percentuali un po’ più elevate e che, soprattutto, per il tramite della convertibilità del PdR in WA, stava facendo breccia proprio in quelle imprese (le PMI) dove le policy di WA non erano presenti o non erano sufficientemente strutturate.

Ovviamente l’annuncio di un sostanzioso innalzamento del valore del PdR, associato all’applicazione di una tassazione irrisoria, ha tutt’altro impatto se la finalità è, invece, quella elettorale. Cosa potrebbe servire, invece, allo sviluppo del WA (e quindi anche della produttività) nelle PMI? Oggi, per accedere agli sgravi collegati ai PdR, occorre avere stipulato un contratto aziendale, il che significa averlo sottoscritto con i Sindacati. Peccato che, notoriamente, nelle PMI il Sindacato spesso non ci sia e che, soprattutto, l’imprenditore neppure gradisca che vi arrivi. In alternativa, dove disponibile, è pur vero che si può aderire a un contratto territoriale, ma non dappertutto questi accordi sono presenti.

Tra le (reali) misure di “s-viluppo” che le precedenti leggi di stabilità hanno introdotto – a partire dalla principale che ha generato una completa inversione di tendenza circa la contrattabilità del WA – vi è quella che ha reso possibile introdurre tali misure anche in forza di un atto unilaterale purché questo abbia carattere negoziale: il Regolamento Aziendale. Ora, se un tale Regolamento, quando rispetti le caratteristiche precisate dall’Agenzia delle Entrate nei suoi più recenti documenti di prassi, è idoneo a tenere luogo del contratto (aziendale o territoriale) ai fini della defiscalizzazione e della decontribuzione delle misure di WA, perché non potrebbe essere idoneo anche alla definizione dei PdR e della loro possibile “welfarizzazione” e come tale diventare depositabile presso gli ITL producendo i medesimi effetti del deposito di un contratto di secondo livello? Questa possibilità, se quanto sosteniamo ha un senso, eliminerebbe un enorme viluppo che oggi impedisce al WA (e alla produttività) delle PMI di “s-vilupparsi”.

Del resto, se l’argomento sottostante alla ridefinizione delle regole sui PdR è correttamente quello che sostiene che la ricchezza va distribuita dove si produce (ossia in azienda), occorrerebbe fare in modo che tale ricchezza sia distribuibile più facilmente e più diffusamente, ossia non solo da un contenuto numero di imprese (le grandi e le medie fino a 250 addetti), ma anche dalla restante e peraltro immensa maggioranza di milioni di piccole e micro imprese. Questo avrebbe anche l’effetto di ridurre quel rischio che la diffusione delle prassi di WA porta con sé: la creazione di “isole felici” (alcune aziende) a fronte di una massa di lavoratori di fatto esclusi dai benefici pur a fronte di condizioni contrattuali e lavorative simili o anche identiche e dove l’unica differenza è, appunto, la dimensione dell’impresa per la quale si lavora.

Un’altra strada, da seguire parallelamente, potrebbe essere quella di sostenere maggiormente le pratiche di partecipazione organizzativa dei lavoratori che tutte le aziende più performanti adottano avendo ben presente che l’engagement e la produttività delle persone deriva sempre più dal loro sviluppo personale e professionale, ossia, ancora una volta, dalla eliminazione dei viluppi più tradizionali della subordinazione che, nell’epoca dell’impresa 4.0 e dello Smart Working, non possono restare ancorati al disegno novecentesco. Sin qui il massimo sforzo è stato decontribuire (nella misura del 20%) i primi 800 euro del valore del PdR, ma si potrebbe fare di più, anche per dare una maggiore effettività a quello che il “Patto per la Fabbrica” ed altri accordi nazionali hanno da tempo messo nero su bianco, enfatizzando proprio il ruolo della partecipazione organizzativa e dello stesso WA.

Bene, invece, quando il ddl prende in considerazione specifici sgravi sugli importi destinati alle cure oncologiche dei lavoratori, ma meno bene quando dimentica un altro tema socialmente rilevante, ossia che la popolazione aziendale (come quella complessiva) sta invecchiando in maniera sempre più evidente e che questa dinamica demografica sta schiacciando, tra carichi di lavoro e carichi familiari raddoppiati (figli in età scolare e genitori anziani spesso non autosufficienti), una fetta crescente di lavoratori (soprattutto donne). La generazione “sandwich” meriterebbe più attenzioni, al pari dei giovani e del sostegno all’occupazione femminile (come pure, meritoriamente, il ddl in questione si ripropone di fare).

Bene anche il sostegno all’allestimento di asili e servizi di dopo-scuola aziendali, anche se gli sgravi previsti sono molto bassi (3.000 euro). Perché non essere più dirompenti (andrebbe bene anche per le finalità elettorali) e non considerare la costruzione di asili nido aziendali tra le immobilizzazioni che potrebbero fruire del “super-ammortamento” o comunque di una qualche similare forma di sgravio e di sostegno? Se ci si decidesse a dire che la conciliazione vita-lavoro è un asset importante della complessiva organizzazione produttiva dell’impresa si farebbe un bel passo avanti. Quegli sgravi, poi, potrebbero essere ulteriormente aumentati laddove l’impresa apra il suo asilo aziendale anche al territorio, andando incontro alle esigenze di welfare della comunità in cui opera. Sarebbe un modo per rafforzare pratiche di reciprocità e per cercare di migliorare la deficitaria condizione dei servizi per l’infanzia in cui versa la quasi totalità delle regioni italiane, nonché una maniera efficace per “sfidare” le aziende sul terreno della Responsabilità Sociale d’Impresa che sono sempre pronte a sbandierare.

Infine, tra le prestazioni di WA, il ddl leghista vorrebbe far rientrare anche la defiscalizzazione delle spese sostenute dai lavoratori per la cura e l’assistenza di animali domestici. Chi scrive ha due amatissime gatte, adora gli animali e condivide l’idea che anche loro facciano parte della famiglia, ma siamo proprio sicuri che prima di poterci permettere il “welfare veterinario” (senza tacere il fatto che le spese in questione sono in parte già deducibili nella dichiarazione dei redditi), non vi siano altre misure più importanti e urgenti da mettere in campo e che riguardano i lavoratori e i componenti (umani) delle loro famiglie?

 

Giovanni Scansani

Ceo e co-founder di Valore Welfare

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