Commenti e interviste

30 Novembre 2022

Welfare, Carli: è ora di investire sulle politiche di welfare

Creare un ambiente di lavoro sereno da parte del datore di lavoro è funzionale al perseguimento della maggiore produttività dei dipendenti, ma è necessario qualificare il concetto di serenità e inserirlo in un quadro più ampio, per valutare se e quanto questo ambiente di lavoro sereno incida realmente, in termini positivi, sulla produttività di un team di lavoro. Ne parliamo con Federico Carli, economista, Presidente dell’Associazione Guido Carli

Cosa intende per ambiente di lavoro sereno, che rende più produttivo il lavoratore?

Per ambiente di lavoro sereno credo si debba intendere la creazione di un modello che, oltre ad una remunerazione adeguata alle mansioni, preveda tutta una serie di attenzioni e benefici che rendano più serena possibile la vita in azienda. Questo sforzo deve essere inquadrato in una cornice più ampia e bisogna fare attenzione a non identificare la serenità con una “comfort zone”, che potrebbe addirittura essere negativa rispetto agli scopi che il datore si prefigge. Se decliniamo la parola serenità con assenza di stimoli competitivi all’interno del gruppo di lavoro, essa rischia di diventare un elemento negativo ai fini della produttività.

Cosa si intende raggiungere, quindi, creando un ambiente di lavoro sereno?

L’ambiente sereno, così come declinato, ha il duplice scopo di attirare i lavoratori migliori in fase di selezione che, una volta inseriti nell’ambiente lavorativo, devono avere la motivazione necessaria ad esprimere tutto il loro potenziale a vantaggio del progetto. A tal fine, i vertici devono trasmettere a ciascun dipendente il progetto strategico di cui questo è parte, nonché l’importanza del suo apporto nella realizzazione dell’obiettivo che il progetto vuole raggiungere. Questo progetto strategico, associato ad una remunerazione adeguata, in un contesto di lavoro sereno, motiva il lavoratore che sarà produttivo al massimo livello. Altro elemento chiave è quello della reputazione dell’azienda o dell’istituzione per cui lavora. Quando viene trasferito ai dipendenti l’orgoglio di appartenenza, ecco lì che essi saranno più produttivi.

In tema welfare, quanto pesa la leva fiscale?

Viviamo una fase particolarmente difficile dell’economia italiana, nella quale il risparmio, che costituisce un bene prezioso, è a rischio, ma deve essere tutelato. Si è aggiunta anche una nuova minaccia, quella dell’inflazione. È chiaro che, in questo contesto, è assolutamente vitale tutelare i risparmi e il potere di acquisto degli stipendi, per preservare la produttività e salvaguardare la tenuta della società italiana. Credo si debba risolvere il paradosso per cui, in Italia, abbiamo tra i salari più bassi d’Europa, con un costo del lavoro che, invece, è tra i più alti. In questo scenario, la leva fiscale può avere un ruolo cruciale, perché proprio agendo sulla leva fiscale si può risolvere questo paradosso. Ritengo opportuno si debba agire con urgenza in questo senso, affiancando a questa operazione una di tipo culturale, a sostegno dei lavoratori.

Da dove bisogna partire per migliorare il welfare aziendale?

Credo si debba superare la tentazione di procedere per slogan e individuare con grande chiarezza i bisogni reali dei lavoratori. Appare necessario garantire ai datori di lavoro la possibilità di offrire soluzioni per i lavoratori commisurate ai bisogni reali di questi ultimi, dando così un contributo reale alla tenuta del potere d’acquisto e dei risparmi del Paese nella fase di prezzi crescenti che stiamo attraversando.

Sul tema, è intervenuto di recente il Presidente Mattarella al Welfare Italian Forum.

Illuminante è stata la frase del Presidente Mattarella secondo cui “la collaborazione tra pubblico, privato e terzo settore è una chiave, nella conferma del carattere universale dei diritti, per potenziare e ammodernare i servizi”. Nessun sistema, infatti, fondato sul predominio assoluto dello Stato può garantire una tutela efficace dei diritti individuali, come appunto quello alla salute. Fondamentale in questo senso è il ruolo degli enti caritatevoli, delle organizzazioni di beneficenza, del mondo no-profit in generale. Si tratta di dare concretezza a un’idea di “grande società”, praticata con successo nelle democrazie del mondo anglosassone e declinata in Europa secondo il principio di sussidiarietà, secondo cui i servizi sociali andrebbero erogati da chi è più “vicino” al beneficiario.

Con quali politiche dovrebbe intervenire lo Stato per garantire assistenza e benessere dei cittadini?

Per garantire assistenza e benessere dei cittadini, lo Stato deve svolgere le proprie funzioni con determinazione. I servizi generali che nel ‘900 europeo sono stati garantiti dallo Stato devono tornare ad essere al centro delle politiche: sanità, istruzione, pensioni, difesa, sicurezza. Dopo anni di tagli scriteriati, è ora di tornare a rivolgere un’attenzione forte a queste aree recuperando le risorse da tutta una serie di spese improduttive fatte negli ultimi anni.

Caterina Somma

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