30 Luglio2024

L’effetto moltiplicatore del Corporate Wellbeing è pari a 4,5 volte il costo sostenuto dall’azienda

corporate wellbeing

JOINTLY e TEHA Group hanno elaborato il primo studio sui benefici – e i costi del “non fare” – che un’azienda può ottenere implementando una strategia di Corporate Wellbeing dal titolo Benessere e Produttività: i benefici economici del Corporate Wellbeing e i costi del “non fare” per le aziende. Evidenze teoriche ed empiriche

Dalle analisi svolte da Jointly e Teha Group emerge che l’adozione di una strategia di Corporate Wellbeing può portare a un incremento del 20% di produttività rispetto alla media delle aziende che non le adottano, con un valore aggiunto per addetto pari a quasi 60mila euro, a fronte di una media attuale di 50mila euro. Produttività che dipende anche da un maggior engagement e senso di appartenenza verso l’azienda attenta alle esigenze dei propri collaboratori.

Nello studio vengono approfonditi non solo i benefici diretti ma anche l’abbattimento dei “costi del non fare”, cioè i costi legati al non adeguare la propria organizzazione alle mutate aspettative dei lavoratori, primo fra tutti il costo del turnover.

Un problema non sottovalutabile quello del turnover: il malessere dei collaboratori ha portato quasi un professionista su due (il 42%), a cambiare lavoro nell’ultimo anno, o a pensare di farlo a breve. Nel 2024 — e per la prima volta — il motivo principale è la ricerca di maggior “benessere fisico e mentale” (36%).

Nel dettaglio i costi del turnover sono stati così scomposti:

• Costo di assunzione di un nuovo dipendente (tra cui pubblicazione di annunci, colloqui, screening e assunzione e/o ricorso a società di recruiting)
• Perdita della produttività, dovuta alla minore produttività, in fase di avvio, del nuovo assunto rispetto al dipendente che ha lasciato l’azienda
• Costo della formazione, stimato tra il 10 e il 20% dello stipendio di un neo-dipendente (legato all’onboarding, inclusi tempi di formazione)
• Altri costi «nascosti»: per esempio perdita di engagement nell’organizzazione (gli altri dipendenti che vedono un alto turnover in azienda tendono a disimpegnarsi, riducendo la propria produttività), ridefinizione delle relazioni con i clienti (i nuovi dipendenti impiegano più tempo nel risolvere i problemi legati alla gestione del cliente e/o si perdono relazioni dirette con clienti)

A partire dall’analisi dei costi complessivi del turnover, la ricerca ha poi analizzato il costo di ogni singola dimissione: ogni persona che lascia il lavoro ha un costo medio per l’azienda pari a circa il 50% del suo stipendio annuo (RAL).

Considerando un valore di RAL media a livello nazionale, questo significa che il costo di ogni dimissione si aggira tra gli 11.000 e €13.000 euro. Se prendiamo quindi come esempio un’azienda di 1.000 dipendenti e immaginando 176 dipendenti che lasciano, se il costo per le dimissioni di ognuno è di 13.000 euro, significa che l’azienda ha un costo totale di 2.288.000 euro.

È stata poi replicata l’analisi differenziando per settori merceologici e per dimensioni di impresa (tenuto conto dei diversi livelli di turnover e di RAL), arrivando a quantificare che il costo del “non fare” può arrivare a rappresentare un importo significativo sui conti economici delle imprese: fino al 26,8% del costo del personale nel settore dei servizi, e fino al 22,4% nelle PMI.

I numeri e i casi illustrati nella ricerca dimostrano che una strategia di Corporate Wellbeing aumenta la produttività, riduce i costi del turnover ma consente anche di rendere più efficiente il costo del lavoro.

Incrementare l’offerta di benefit non monetari ai propri dipendenti permette infatti di efficientare il costo del lavoro attraverso una duplice leva. Da un lato il beneficio fiscale aggiuntivo e dall’altro “l’effetto moltiplicatore” generato da queste misure, cioè il reale valore creato per il dipendente a fronte della spesa effettuata dall’azienda, per effetto ad esempio del potere negoziale dell’azienda, o della possibilità di attivare meccanismi mutualistici o di “pooling dei rischi”.

In sintesi, secondo l’analisi TEHA Group -JOINTLY, l’effetto moltiplicatore del Corporate Wellbeing è pari a 4,5 volte il costo sostenuto dall’azienda.

“Definire una strategia di Corporate Wellbeing significa mettere le basi affinché un’azienda possa rimanere competitiva, e garantirsi capacità di innovazione e livelli di produttività ottimali, grazie ad un approccio sostenibile sul mercato del lavoro. Passare da singole iniziative estemporanee e disorganiche a una strategia integrata per il Corporate Wellbeing richiede l’endorsement del top management e una cultura aziendale improntata all’ascolto e all’innovazione. Un percorso quindi lungo, non sempre in discesa e lineare ma appassionante perché consente a un’impresa di essere più profittevole e sostenibile nel lungo periodo. I numeri e i casi illustrati nella ricerca, infatti, dimostrano che una strategia di Corporate Wellbeing aumenta la produttività, riduce i costi del turnover e consente di rendere più efficiente il costo del lavoro” conclude Francesca Rizzi, Amministratore Delegato JOINTLY.

“Oggi più che mai migliorare la ‘qualità’ del luogo di lavoro rappresenta una sfida cruciale per quelle imprese che vogliono attrarre le migliori risorse presenti sul mercato del lavoro e rafforzare la propria capacità di retention. Il mondo del lavoro, come abbiamo evidenziato nello studio, è sempre più caratterizzato da una crescente difficoltà di recruiting, dimissioni e quiet quitting” – ha commentato Pio Parma, Senior Consultant dell’Area Scenari e Intelligence di TEHA Group. “Lo studio ha ricostruito, per la prima volta in Italia, i benefici per le aziende derivanti dall’adozione di una strategia integrata di Corporate Wellbeing per aumentare la produttività e ridurre i costi interni, molti dei quali ‘sommersi, offrendo così ai decisori aziendali uno strumento concreto per il miglioramento della propria strategia di attraction, engagement e retention dei dipendenti”.

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