Dopo un personale attraversamento del burnout, decide di trasformare la sua esperienza in un catalizzatore per la sua missione: dedicarsi con passione al benessere digitale. Intervista ad Alessio Carciofi autore del testo “Wellbeing. Il futuro umano e digitale del benessere”
“Rispondiamo a tutto e a tutti come se fossero sempre delle questioni da codice rosso, senza renderci conto che il codice rosso siamo noi, a cui dovremmo prestare attenzione”. Parole incisive per compredere l’attualità delle nostre condizioni di lavoro e quindi dei nostri atteggiamenti psicofisici che vengono quotidianamente piegati e minacciati da una scarsa attenzione al benessere digitale. Approfondiamo queste tematiche con Alessio Carciofi, professore universitario ed esperto di marketing & digital wellbeing, autore del testo Wellbeing. Il futuro umano e digitale del benessere.
Iniziamo il nostro confronto con un azzardo: se non avessimo raggiunto questo grado di innovazione tecnologica e quindi di iperconnessione, parleremmo lo stesso di burnout?
Il burnout indica la privazione di energie mentali e psicofisiche dovute, esclusivamente, alla condizione lavorativa. Considerando però che molte persone lavorano in smart working e quindi sono cambiati i luoghi dedicati al lavoro, indubbiamente il burnout è una conseguenza tanto della tecnologia quanto della pandemia. Si pensa al benessere solo quando perdiamo il benessere. Perciò il Covid e le mutate condizioni di lavoro hanno fatto emergere un’attenzione senza precedenti.
Quali sono i campanelli d’allarme che ogni persona non dovrebbe sottovalutare per evitare di soffrire di questa sindrome?
Ascoltiamo in maniera dipendente le notifiche che riceviamo da tutti i device ma ignoriamo i segnali che ci invia il nostro corpo. Per esperienza vissuta, come raccontato nel libro, il burnout è un viaggio in solitaria che parte proprio dai messaggi che il corpo ci manda e che noi ignoriamo: le persone che ci circondano percepiscono prima di noi che non stiamo bene e che c’è qualcosa che non va. Non essere più in contatto con noi stessi ci porta a non relazionarci con gli altri; viviamo una condizione di reattività, di risposta a degli stimoli, e non di attività consapevole. Perdiamo quindi molta energia giorno dopo giorno e a livello chimico, accumulando adopamina, siamo scattosi, nervosi, stressati. Insieme all’energia, ci allontaniamo anche dai nostri valori perché l’ego ci fagocita facendoci perdere il senso di quello che siamo e facciamo. Il burnout ci porta a non fare i conti con noi stessi e a rifugiarci in un mondo di iperconnessione in cui il lavoro sostituisce i nostri problemi non risolti, le nostre fragilità.
L’Italia a confronto con la dimensione internazionale: a che punto siamo e in che modo possiamo correggere i nostri piani di benessere?
In Italia siamo all’alba: un grande Sole, che vediamo all’orizzonte, e che lascia la notte alle spalle ma ancora non pienamente alto nel cielo. Paradossalmente oggi viviamo in un tempo di maggiore benessere: rispetto agli anni Sessanta, Settanta, Ottanta, gli investimenti in weelbeing aumentano, è innegabile, ma aumentano anche i disturbi di burnout. Cosa non torna quindi? Da un lato il welfare, ancora in alcuni ambiti, non è affatto strutturale ma è solo legato al corso di yoga o alla palestra, da praticare in orario serale e dopo una giornata di lavoro. Dall’altro i piani di welfare hanno poco budget e questo determina che non si riescano a raggiungere dei risultati significativi. Ultimo dato, che si riferisce già a quanto detto nella prima domanda, il welfare, nella maggior parte dei casi, subentra nel momento in cui si riscontra un problema, in una modalità d’intervento “curativa” e non preventiva: subiamo quindi delle situazioni di stress piuttosto che anticiparle ed evitarle.
Quali sono i problemi maggiormente diffusi tra le persone, quali sono gli ambiti lavorativi più stressati e ci sono distinzioni di genere?
Nonostante le certificazioni, nel mondo corporate, anche in merito alle questioni di genere, siamo all’alba. Le statistiche ci dicono che le donne sono le più soggette al burnout in quanto il lavoro di cura familiare si sovrappone a quello lavorativo e viceversa. Non amo infatti il termine worklife balance, preferisco parlare di worklife integration perché non si dovrebbe parlare di bilanciamento ma di integrazione. I settori più colpiti sono quelli dei knowledge workers e/o quelli relativi all’innovazione tecnologica e alla digitalizzazione, ma penso anche alla pubblica amministrazione che non è riuscita a fare il salto, a evolversi. Le differenti leadership dovrebbero tenere conto non tanto del diritto alla disconnessione, il cui rispetto è sicuramente un merito, quanto piuttosto della sfera emotiva dei propri collaboratori e collaboratrici, di quello che un’ingerenza lavorativa, favorita dalla digitalizzazione, può determinare nello stato d’animo di una persona. All’interno delle aziende, dunque, prima di parlare di benessere, si dovrebbe parlare di benessere digitale per sviluppare consapevolezza nell’utilizzo dei differenti strumenti che abbiamo a disposizione.
La Gen Z potrebbe cambiare le modalità di lavoro apportando maggiore consapevolezza e meno abnegazione?
La rivoluzione umana del benessere, che io cito all’inizio del libro, sarà proprio condotta dalla Generazione Z. I ragazzi e ragazze di questa generazione hanno molto sofferto la dedidizione dei genitori ritrovandosi da soli e da sole a casa ad affrontare le loro difficoltà. Le domande che loro ci pongono possono sembrarci strafottenti, finalizzate a un tornaconto personale ma in realtà ci fanno riscoprire dei valori di una vita fa. E noi possiamo aiutarli attraverso una leadership più empatica, rivolta all’ascolto, che invita alla partecipazione e alla condivisione. Le aziende possono essere quindi dei veri e propri laboratori di umanità.
Tutti parlano di welfare ma non tutte le aziende sono propense all’ascolto e al rispetto della libertà di disconnessione. Qual è il confine tra effettivo dialogo e “welfare washing”?
Il wellbeing washing o welfare washing sono degli alert. Prima di parlare di benessere, dobbiamo essere benessere. C’è il rischio latente che le aziende, obbligate a rispettare i parametri esg, di inclusione e di diversità, siano mosse da procedure burocratiche standard piuttosto che dalla riscoperta interiore di cogliere quegli strumenti, singolari e emotivi, per sviluppare una società migliore e consapevole.
Lucia Medri
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Novembre 18, 2024