Itinerari Previdenziali ha presentato al CNEL l’Osservatorio sulla spesa pubblica e sulle entrate dal titolo “Sostenibilità della spesa per pensioni in un’ipotesi alternativa di sviluppo”
Nel 2018, il rapporto occupati/pensionati si è attestato sull’1,45, valore molto prossimo a quell’1,5 individuabile come traguardo cui tendere per la stabilità di medio-lungo termine del sistema. Malgrado i segnali di miglioramento, non mancano però da parte degli organismi internazionali i richiami nei confronti dei conti pubblici italiani, su cui gravano anche alcuni limiti dei modelli previsionali adottati e, in particolare, la mancata riclassificazione della spesa pensionistica
Demografia, occupazione e crescita economica le variabili individuate dall’Osservatorio come quelle su cui agire per garantire all’Italia, e al suo sistema pensionistico, uno sviluppo alternativo agli scenari più pessimistici.
Nel 2018 l’Italia ha già fatto segnare uno dei tassi di occupazione più alti di sempre: resta però ancora da mobilitare, attraverso investimenti volti a rilanciare la produttività e un’adeguata valorizzazione del capitale umano (conciliazione vita-lavoro, age management e formazione continua), una “riserva inutilizzata” di lavoratori disoccupati o inoccupati, in prevalenza giovani, donne e over 55. Dalla metà del 2014 fino alla prima parte del 2018, l’Italia ha vissuto una fase di crescita positiva evidenziata sia da buoni dati sul fronte dell’occupazione, che ha toccato uno dei tassi più elevati di sempre (il 58,7%, con circa 23,223 milioni di occupati tra i 15 e i 64 anni), sia da segnali positivi per quanto riguarda la tenuta del sistema pensionistico. Nel 2018, il rapporto occupati/pensionati si è infatti attestato intorno all’1,45, valore più alto degli ultimi 22 anni e molto prossimo a quell’1,5 occupati individuabile come traguardo cui tendere per la stabilità di medio-lungo termine del sistema.
Eppure, malgrado risultati apprezzabili dopo gli anni della crisi, non sono mancati allarmi (anche recenti) sui conti pubblici italiani da parte di Unione Europea, Fondo Monetario Internazionale e Ocse. Richiami che, se si possono considerare comprensibili nel caso di una spesa assistenziale fuori controllo – 116 i miliardi stimati a carico della fiscalità generale per la spesa sociale nel solo 2018 – e di un eccessivo debito pubblico – nel 2018, per i soli interessi sul debito sono stati “spesi” 62,536 miliardi -, non sono invece giustificabili nel caso della spesa pensionistica “pura” che, al netto dei trasferimenti monetari di natura assistenziale, ha fatto segnare nell’ultimo quinquennio un incremento annuale dello 0,7%, uno dei più bassi dalla metà degli anni Novanta in poi.
Un futuro già scritto o che lascia la strada a un’ipotesi di sviluppo alternativa? Questa la domanda da cui trae le premesse l’Osservatorio sulla spesa pubblica e sulle entrate Sostenibilità della spesa per pensioni in un’ipotesi alternativa di sviluppo, redatto da Alberto Brambilla, Gianni Geroldi, Claudio Negro, Paolo Onofri e Alessandro Rosina per il Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali e presentato questo pomeriggio al CNEL. «Considerato proprio l’elevato livello del debito pubblico italiano, questi giudizi tutt’altro che positivi condizionano innanzitutto società di rating e mercati, con i nefasti risultati evidenziati dallo spread. Va poi rilevato che, per quanto lasci l’adozione dei provvedimenti specifici all’autonomia dei Paesi membri, il coordinamento delle politiche di welfare in Europa ha acquisito col tempo un’incidenza maggiore – ha spiegato il Prof. Alberto Brambilla – tanto che, con le cosiddette raccomandazioni specifiche per Paese, la Commissione e il Consiglio europeo possono indirizzare in misura significativa le linee di policy di ogni singolo Stato».
Ragione per la quale si rende necessaria un’analisi dettagliata degli elementi che sottostanno a queste previsioni – quadro demografico, andamento del mercato del lavoro, produttività e altri fattori di crescita economica – così da valutarne innanzitutto la fondatezza e, dunque, in un’ottica prospettica, anche le contro-misure da adottare per indirizzare l’Italia verso scenari più rosei. «Innanzitutto, abbiamo dunque verificato – precisa Brambilla – che i modelli previsionali adottati presentano dei limiti: un chiaro esempio riguarda la rendicontazione della spesa sociale». Come riportato nel paper, i dati in merito infatti sono spesso contrastanti, mentre a essere presentato in sede europea è un valore che, ricomprendendo anche voci di spesa non strettamente correlate alle pensioni, finisce con l’aggravare di molto il giudizio, e la pressione, nei confronti del sistema pensionistico italiano. Di qui, la proposta di una riclassificazione della spesa previdenziale al netto dell’assistenza, nel solco di quanto già fatto dall’INPS e dal Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano, un tempo redatto dal Nucleo di Valutazione della spesa previdenziale e oggi pubblicato da Itinerari Previdenziali. «Sarebbe comunque sbagliato far cadere tutta la responsabilità dei richiami sulla sola presentazione dei dati – ha chiosato Brambilla – ricordando anzi come, malgrado le direttive UE, molti degli ultimi governi abbiano alimentato eccessivamente quel capitolo di spesa, sia per imperizia sia per convenienza elettorale». Con l’ulteriore aggravante dell’assenza di un’anagrafe dell’assistenza, utile a razionalizzare l’erogazione di tutte le prestazioni sociali che si sono sommate e sedimentate nella legislazione nel corso degli ultimi anni.
In seconda battuta, l’Osservatorio considera che gli scenari per gli anni a venire sono per solo in parte già definiti, lasciando dunque spiragli per un migliore sviluppo dell’Italia attraverso interventi che sappiano combinare evoluzione demografica, ripresa del mercato del lavoro, rilancio della produttività e dell’economia. Se è infatti ad esempio vero che, secondo le ultime previsioni, l’Italia è destinata a una crescita della quota anziana a fronte di una riduzione della popolazione complessiva, lo è altrettanto che adeguate politiche familiari e di conciliazione vita-lavoro per favorire l’aumento della natalità, da un lato, e una gestione dei flussi migratori coerente con le esigenze economico-occupazionali del Paese, dall’altro, potrebbero contrastare le più pessimistiche prospettive di “declino demografico”. «In particolare, c’è chi si preoccupa di come l’effetto combinato di riduzione e invecchiamento della popolazione possa incidere sull’andamento del mercato del lavoro ma – secondo Brambilla – l’ancora elevato tasso di disoccupazione dimostra come l’Italia sia comunque ben lontana dall’aver mobiliato tutti i soggetti in età di lavoro e può, anzi deve, contare, su un’ampia “riserva inutilizzata” di disoccupati, in prevalenza, giovani, donne e over 55, per rimpiazzare i lavoratori che accedono alla pensione. Ripensare l’organizzazione del lavoro, intervenire sulla distanza che separa il percorso formativo scolastico dalle esigenze del mercato, investire in attività di formazione specialistica e continua, impegnarsi nella messa a punto di misure di age management e favorire la flessibilità in uscita con strumenti poco onerosi per lo Stato come i fondi esubero e i fondi di solidarietà sono tra le strade da percorrere, secondo l’Osservatorio, per ridurre quella quota consistente di disoccupazione attribuibile, nel caso italiano, ad alcune debolezze strutturali – scarsa adattabilità ai cambiamenti e insufficiente livello di specializzazione – che allargano il mismatch tra domanda e offerta di lavoro.
Secondo il Centro Studi e Ricerche, occorrerebbe dunque infine intervenire sul sistema degli incentivi all’occupazione privilegiando, sul modello di quanto già fatto per Industria 4.0, il maxi-ammortamento del costo del lavoro alla decontribuzione, che spesso finanzia attività di comodo o decotte creando occupazione instabile, e promovendo investimenti pubblici e privati in ricerca e innovazione soprattutto nelle scienze biomediche, nella farmaceutica, nell’ICT. «L’occupazione non si crea in forza di legge – ha concluso il Prof. Brambilla – ma stimolando produttività e sviluppo che, ormai da troppi anni, sono a dir poco modesti in Italia. Non si può fare una colpa alla Commissione europea o agli organismi internazionali se su questi temi le valutazioni sono negative: da oltre 20 anni, manca una vera politica industriale, cui si sommano infrastrutture obsolete, una burocrazia spesso farraginosa, una spesa pubblica troppo sbilanciata sulla sola spesa corrente e una classe politica alla ricerca del (facile) consenso elettorale da raggiungere con promesse di assistenza e sussidi più che con azioni concrete a favore delle giovani generazioni e del sistema tutto. Le premesse per migliorare la situazione non mancano in verità, ma servono riforme concrete e mirate che rendano complessivamente più ottimistiche le proiezioni del PIL, permettendo così di gettare le basi per un rinnovato clima di fiducia e benessere».
Le nuove dinamiche del welfare aziendale: l’integrazione dei public benefit
Agosto 28, 2024