Di smart working si continua a parlare e straparlare. Nell’orizzonte del welfare aziendale resta un elemento organizzativo importante. Ma a certe condizioni, che le norme durante la pandemia hanno snaturato. Oltre ai recenti contributi di Luca Pesenti e Giovanni Scansani ospitiamo oggi la riflessione dell’avvocato Fabrizio De Angelis (*)
Come è stato preconizzato da sociologi ed economisti, la nostra società globalizzata, ciclicamente, si riorganizza, acquisisce nuove e diverse forme che sostituiscono le precedenti e che, a loro volta, vengono, di lì a qualche decina d’anni o anche meno, nuovamente soppiantate da altre strutture sino ad allora sconosciute. Questo sta accadendo, proprio ora, nel mondo del lavoro.
La tecnologia non ha cambiato soltanto le nostre abitudini di adulti rispetto a ciò che abbiamo vissuto in gioventù, ma già oggi fornisce ai nostri figli i primi strumenti di approccio al loro lavoro per il futuro. La piattaforma è ormai il luogo di incontro di domanda ed offerta di lavoro, di approfondimento e formazione continua e, dopo la lunga clausura forzata da Covid, è anche divenuta, a tutti gli effetti, il luogo della prestazione lavorativa.
In un mondo del lavoro che si trovava già in radicale fase di cambiamento, la pandemia è stata l’acceleratore tecnologico per il definitivo salto nella nuova era del lavoro digitale. Eppure, come spesso ci è accaduto nei giochi all’aperto della nostra infanzia-non digitale, salti troppi azzardati, ci costringono a guardare nelle nostre tasche, perché qualcosa è saltato fuori e, inavvertitamente, è andato perduto.
È il caso delle norme sulla modalità di svolgimento della prestazione lavorativa in smart working che nella fase di decretazione di urgenza post-Covid del Governo sembrano essere state inspiegabilmente smarrite.
Bisogna ricordare che gli artt. da 18 a 23 della Legge del 22 maggio 2017 n. 81 hanno fissato a chiare lettere i principi normativi che regolano il lavoro agile, ponendo al centro dell’intero impianto l’accordo tra datore di lavoro e lavoratore, quale fonte che “disciplina l’esecuzione della prestazione lavorativa svolta all’esterno dei locali aziendali, anche con riguardo alle forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro ed agli strumenti utilizzati dal lavoratore… i tempi di riposo del lavoratore nonché le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro” (art.19, comma1).
Ebbene, tale imprescindibile fonte contrattuale è stata dimenticata nel cassetto in fase di legislazione pandemica quando, prima il DPCM del 1° marzo 2020, art. 4, comma 1, lett. a) e, poi, i Decreti Cura Italia e Rilancio hanno ritenuto che questa non fosse più necessaria. Quindi, tutti a “lavorare da casa” senza alcun accordo tra datore di lavoro e lavoratori.
Una scelta che, di fatto, ha snaturato il lavoro agile, il cui utilizzo si voleva favorire, generando non poche anomalie ed abusi, quando milioni di lavoratori si sono ritrovati costretti a lavorare tra le mura di casa, privati del tutto delle garanzie che solo l’accordo individuale con il datore di lavoro poteva riconoscergli.
Basti pensare che l’accordo in questione, oltre agli elementi di cui si è detto, regola, opportunamente, anche la durata, a tempo determinato e indeterminato dello smart working, nonché il recesso e il relativo preavviso che entrambe le parti possono attivare per porre fine alla modalità di svolgimento della prestazione, anche tenendo conto di un “giustificato motivo”.
In questi giorni le opinioni sul mondo del lavoro post-Covid e sullo smart working si susseguono e purtroppo sembrano essere più frequenti quelle, spesso prive di consistenza giuridica, che ritengono il lavoro agile praticato durante la pandemia la nuova frontiera dell’organizzazione del lavoro che renderà il nostro sistema economico più produttivo, dimenticandosi del fatto che quella modalità, così per come è stata imposta dai recenti decreti del Governo è, di fatto, inapplicabile.
Per poter ragionare in termini più aderenti al nostro impianto giuslavoristico, infatti, non possiamo non tener presente, innanzi tutto, che, se da una parte deve “agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro” dei dipendenti, dall’altra, il lavoro agile è uno strumento pensato dal legislatore per “incrementare la competitività (art. 18, comma1)” e ciò può avvenire solo a seguito di una precisa scelta imprenditoriale che, come noto, è insindacabile sotto il profilo della opportunità in base al dettato costituzionale fissato dall’art. 41.
Una scelta che deve incontrare la richiesta di bilanciare il lavoro e la vita privata dei dipendenti e deve poi trovare la sua sintesi giuridica nell’accordo individuale, magari seguendo le indicazioni stabilite dalla contrattazione collettiva, anche di secondo livello ai sensi del Legge n. 148 del 2011 e del conseguente ampliamento della capacità derogatoria riconosciuta alle parti sociali rispetto alla legge ed al CCNL attraverso l’utilizzo della contrattazione di prossimità.
Ecco allora che applicare nuovamente, con rigore, le norme sulle quali lo smart working si fonda significa innanzitutto riconsegnare diritti alle parti del rapporto di lavoro ed al contempo contribuire a favorire l’incontro tra datori di lavoro e lavoratori per l’individuazione di regole partecipate, in una concreta prospettiva comune di innovazione.
*Fabrizio De Angelis – Avvocato – Docente di Diritto del Lavoro (Università degli Studi di Teramo ed Università del Sacro Cuore di Roma)
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Novembre 18, 2024