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27 Settembre 2019

Mauro Maré: “Welfare? Chi può se lo deve pagare”

Mauro-Marè

Mauro Maré – superconsigliere economico dell’ex ministro Padoan e candidato alla guida dell’Inps prima del Conte I – spiega la sua ricetta welfare e i dubbi sull’equilibrio tra pubblico e privato. Marco Barbieri, direttore di WeWelfare, lo ha intervistato nel Dossier Welfare de Il Messaggero lo scorso 25 settembre.

Mauro Maré

 

 

“Primo, secondo, terzo pilastro? Bisognerebbe ripensare tutto. Le scelte individuali di welfare devono essere favorite e sostenute. Dare tutto a tutti non è più possibile”. Mauro Maré non è tipo da sentenze, ragiona e analizza, ma non si sottrae alle sintesi, anche quando non seguono il mainstream. Docente di Scienze delle Finanze, è presidente di Mefop SpA (società controllata dal Mef, nata per studiare i Fondi pensione e per formare i loro amministratori, oggi è sempre più rivolta a 360 gradi a favorire lo sviluppo delle diverse forme di welfare). Consigliere economico dell’ex ministro Pier Carlo Padoan, fu candidatissimo al vertice dell’Inps fino alla nascita del Governo giallo-verde. Uno dei pochi in grado di rivolgere uno sguardo di insieme al reticolo del sistema del welfare.

Welfare integrativo. Cioè privato. C’è chi si turba ancora ad ammettere la necessità di pensare a un welfare necessariamente pubblico-privato.

La pubblicizzazione del welfare, che vorrebbe dire farlo poggiare solo sul sistema fiscale, è ormai impraticabile. Non è sostenibile. Non ci sono i soldi.

O si aumentano le tasse o si riducono le protezioni sociali a carico del pubblico.

Inevitabile. La pressione fiscale deve diminuire, certamente non possiamo immaginare che cresca. Si deve operare contro l’evasione, si deve riflettere sulle basi imponibili, si deve pensare sempre all’orizzonte distributivo, ma il Fisco non può più dare tutto a tutti. Si devono favorire le scelte individuali di welfare. Il sostegno pubblico deve riguardare solo chi non ce la fa. Chi può deve pagarsi il suo welfare.

Una ricetta liberale o liberista?

Né l’una né l’altra. Individualizzare il welfare è una necessità. Abbiamo ragionato per troppo tempo di primo, secondo, terzo pilastro. È cambiato tutto.

Da dove partiamo?

Dalla demografia. L’ultimo rapporto Ocse dice che in Italia abbiamo lo stesso numero di lavoratori e di pensionati. Con un rapporto di uno a uno il sistema a ripartizione della previdenza pubblica, per come lo abbiamo conosciuto fino a oggi, non può resistere. Certo non può assicurare ai nostri figli le prestazioni garantite ai nostri padri.

Quindi ognuno per sé? E la solidarietà, il patto tra le generazioni?

È per questo che il privato deve avere spazio nel sistema complessivo di welfare. Vuol dire che chi può deve pagarsi le prestazioni. Sia nella previdenza, ma anche nell’assistenza sanitaria.

I tecnici parlano di opting out. In Germania è già possibile: se voglio posso contribuire di meno al sistema pubblico, ma poi non posso più chiedere le prestazioni pubbliche.

L’orizzonte mi sembra giusto, ma una ipotesi del genere temo che in Italia non passerebbe, anche se viene praticata in molti Paesi. Nel sistema sanitario, per esempio. Lo aveva rilanciato Elsa Fornero. Ma si è visto come è stata scardinata anche la sua riforma delle pensioni. Quota 100 è un problema. Se il privato deve pagare quello che può, il pubblico deve limitarsi a pagare quello che è ragionevole. E non è ragionevole pagare la pensione quando le persone sono ancora in età da lavoro.

Quindi? Siamo allo stallo?

Bisogna avere il coraggio di riequilibrare il sistema di welfare, favorendo gli strumenti alternativi di protezione sociale che il mercato riesce a proporre. A cominciare dalla sanità.

Pensavo che il primo capitolo del welfare, sia pubblico che privato, fosse la previdenza?

Mefop redige da una decina d’anni una indagine campionaria presso i lavoratori. Ormai la maggioranza ha capito che la prima frontiera è la salute. Dieci anni fa la prima preoccupazione era la pensione. Oggi sono le prestazioni sanitarie, fino alla soglia dell’assistenza, al long term care. La vita che si allunga deve essere assistita, accompagnata. Ma per avere le risorse occorre pensarci per tempo.

Salute e previdenza si incrociano…

Esattamente. Vediamo che anche i fondi pensione più consistenti, penso a Cometa o a Fonchim, hanno lanciato e promosso dei fondi di sanità integrativa. Anche lo sviluppo del welfare aziendale, oltre ai benefit ludici dovrà sempre più favorire servizi collegati alla salute e all’assistenza dei lavoratori e del loro nucleo familiare.

Più spazio al mercato, alle assicurazioni?

Sì, ma anche alla bilateralità, alle scelte che nascono dal negoziato tra le parti. È certo che il nostro è un Paese sotto-assicurato. Scontiamo un problema culturale, di scarsa educazione finanziaria. E un Fisco eccessivo. Si devono introdurre incentivi fiscali. La riduzione delle entrate sarebbe ampiamente ripagata da un taglio delle spese. Il perimetro pubblico deve ridursi.

Incentivi fiscali: è la strada anche per dare fiato al lento sviluppo della previdenza complementare?

Non c’è dubbio. Noi abbiamo ancora un sistema ETT, per chi ama gli acronimi la E sta per esenzione, le T stanno per tassazione. L’esenzione fiscale riguarda solo la raccolta. Si tassa invece sia il rendimento che la prestazione. Nei Paesi dove la previdenza complementare è sviluppata vige un sistema EET. L’esenzione fiscale spetta sia alla raccolta che al rendimento. Si tassa solo (e poco) la prestazione finale.

E per favorire il secondo pilastro, anche se abbiamo capito che si tratta di una tassonomia invecchiata, ci vuole magari l’obbligatorietà?

A me le cose obbligatorie non piacciono. Ma il sistema di adesione volontario, così come quello contrattuale, non hanno funzionato. Obbligatorio, semi-obbligatorio… Non so. Torniamo al tema delle assicurazioni. In Giappone è obbligatoria l’assicurazione anti-sismica per le abitazioni. Da noi purtroppo no. E ne paghiamo le conseguenze. In Germania l’adesione al secondo pilastro previdenziale è obbligatoria.

Abbiamo dimenticato qualcosa?

Solo la cosa più importante.

Sarebbe?

La crescita. Senza crescita non c’è welfare. Le risorse, pubbliche e private, si producono con la crescita economica del Paese. Vuol dire investimenti. Investimenti pubblici, ma non in disavanzo. E investimenti privati. Le imprese devono investire, per farlo devono avere un clima di fiducia che consenta loro di guardare al futuro con un discreto ottimismo. Investimenti nel mondo dei servizi e della tecnologia, soprattutto. A monte di tutto se l’Italia non cresce non potrà avere né un welfare pubblico, né un welfare privato.

Marco Barbieri

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